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Francesco Favorito

cibo vegano

La scelta alimentare dice molto di noi. Rivela la nostra etica, la nostra sensibilità ecologica e soprattutto il nostro attuale e futuro stato di salute.

La scelta alimentare vegana prevede che vengano esclusi animali (carne, pesce,volatili) ed ogni prodotto di origine animale (uova, latte e derivati, miele) dall’alimentazione. Non voglio intenzionalmente definirla una dieta, termine che spesso inconsciamente associamo a restrizioni e sacrifici alimentari: scopriremo insieme che non c’è traccia di rinuncia in questo regime alimentare che al contrario permette un guadagno in termini di vita per tutti gli esseri viventi, salute per chi lo segue e per il pianeta che ci ospita e riscoperta della varietà e del gusto che il patrimonio vegetale ci offre.

Questa alimentazione fa parte di una filosofia di vita, il veganismo, basata sul rifiuto di ogni forma di sfruttamento degli animali, che si tratti di scopi alimentari, abbigliamento, arredamento, spettacolo sport ecc.

Il termine “vegan” è un neologismo coniato dall’attivista inglese Donald Watson, fondatore nel 1944 con Elsie Shrigley della Vegan Society, nata in seguito al dibattito all’interno del mondo vegetariano sull’esigenza di escludere i latticini dai prodotti ritenuti vegetariani e al rifiuto di questa proposta da parte della Vegetarian Society

Furono i primi lettori di Donald Watson a suggerire un termine più breve per sostituire “vegetariani non consumatori di latticini” (non –dairy vegetarian) e da tutte le proposte che ricevette scelse vegan, formato dalle prime ed ultime lettere della parola vegetarian.

Il veganismo è dettato da principi etici di rispetto della vita animale e si basa su una concezione non-violenta della vita e sul pensiero antispecista che sostiene il riconoscimento della capacità di sentire, esprimere volontà ed allacciare rapporti sociali a tutti gli animali anziché considerarle antropocentricamente prerogative della specie umana. Il veganismo quindi si prefigge lo scopo di non prendere parte allo sfruttamento e all’uccisione sistematica degli animali per l’alimentazione e per ogni altro fine. L’etica vegana non accetta l’idea che l’uomo si arroghi il diritto di disporre della vita degli altri animali come crede, pur riconoscendo che il solo fatto di esistere implica la morte accidentale di altri esseri viventi (solo camminando o percorrendo le strade, ad esempio, causiamo la morte di molti insetti).

Spesso la scelta di seguire un’alimentazione vegana viene considerata estremista ma, a ben guardare, non è altro che una scelta “secondo natura”: studi effettuati su reperti archeologici sostengono che l’uomo nasce frugivoro, lo provano i denti degli ominidi predecessori dell’homo sapiens, che presentano tutti le caratteristiche striature dei mangiatori di frutta.

Il fatto di nutrirsi di sola frutta non causò alcuna menomazione fisica ai nostri antenati che svilupparono un cervello di dimensioni analoghe a quelle attuali tra 4 e 1 milione di anni fa, epoca in cui non si faceva ancora uso della caccia (i primi strumenti da caccia rinvenuti vengono datati tra 1,5 milioni e 600.000 anni fa). Si ritiene inoltre che anche quando i nostri antenati cominciarono a ricorrere a questa pratica lo fecero più per motivi di difesa che come fonte di sostentamento, la caccia rappresentò un avvenimento sporadico che non cambiò la loro natura. Questa teoria concorda con l’osservazione delle grandi scimmie, con le quali condividiamo la famiglia zoologica (Ominidi o scimmie antropomorfe) ed il 95 % del  DNA: hanno tutte una dieta frugivora (eccetto i gorilla di montagna che sono erbivori); non hanno una predisposizione fisica alla caccia alla quale ricorrono solo in caso di difesa o nelle stagioni di siccità per sopperire alla mancanza di frutta; hanno pollice opponibile e unghie (anziché artigli) che rendono agevole la raccolta della frutta;come l’uomo presentanoincisivi ben sviluppati, molari smussati, intestino lungo, saliva e urina alcaline. Ben diversa è l’anatomia dei carnivori che, a dispetto del nome, non consumano solo la carne ma ogni parte dell’animale (ossa, interiora, cervello, ecc): questi sono anatomicamente predisposti al consumo di carne grazie a denti ed artigli taglienti e, a differenza dell’uomo, sono dotati dell’enzima uricasi che produce acido urico e di un intestino molto più corto. L’uomo, per natura, non era predisposto al consumo della carne, che è stata resa digeribile solo con l’utilizzo del fuoco.

Il rifiuto del consumo di carne animale non è una moda di tempi recenti: è presente nelle religioni e filosofie più antiche nelle quali era considerato una forma di elevazione spirituale. Ne abbiamo testimonianza nella pratica dei sacerdoti dell’antico Egitto, nell’orfismo e nella scuola filosofica pitagorica in Grecia tanto che veniva definito “pitagorico” chi si asteneva dal consumo di carne. Platone stesso invitava a nutrirsi di ciò che non è animato, Ovidio dichiarava deplorevole mantenersi in vita con la morte di un altro essere vivente.

Significativi gli interventi a favore del vegetarianesimo di Plutarco, filosofo e scrittore greco vissuto sotto l’impero Romano, nella sua opera De esu carnium: “Se però sei convinto di essere naturalmente predisposto a tale alimentazione, prova anzitutto a uccidere tu stesso l’animale che vuoi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure. Fa’ come i lupi, gli orsi e i leoni, che ammazzano da sé quanto mangiano: uccidi un bue a morsi o un porco con la bocca, oppure dilania un agnello o una lepre, e divorali dopo averli aggrediti mentre sono ancora vivi, come fanno le bestie. Ma se aspetti che il tuo cibo sia morto e se la vita presente in quelle creature ti fa vergognare di goderne la carne, perché continui a mangiare così come si trova, ma si lessa, si arrostisce, si modifica la sua carne per mezzo del fuoco e delle spezie, alterando, trasformando e mitigando con innumerevoli condimenti il sapore del sangue, affinché il senso del gusto, tratto in inganno, possa accettare quanto gli è estraneo.”

Nella Bibbia Dio, dopo la creazione dell’uomo, gli indica quale sarà il suo cibo: “E Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo» (Genesi, 1:29).

Un genio come Leonardo Da Vinci auspicava l’avvento di “un giorno in cui gli uomini giudicheranno l’uccisione di un animale come essi giudicano oggi quella di un uomo” ed era solito acquistare uccelli in gabbia per poi liberarli.

L’illuminista francese Jean-Jacques Rousseau sosteneva che l’indifferenza dei bambini verso la carne è una prova che il gusto per la carne non è naturale e considerava più crudeli e feroci gli uomini che consumavano carne rispetto agli altri; per Charles Darwin il cibo normale dell’uomo è quello vegetale.

La nostra anatomia e la nostra storia ci dicono quale dovrebbe essere la base della nostra alimentazione e più ce ne allontaniamo più il nostro corpo ne risente in termini di problemi di salute.

Chi consuma esclusivamente alimenti vegetali è protetto il 40% in più dal cancro, dal 20 all’80% dalle malattie cardiovascolari, dal 20 al 60% dall’alta pressione arteriosa e pesa il 10 % in meno rispetto agli onnivori.

Chi ha origini contadine sa bene che il consumo di carne (per necessità) è sempre stato ridotto: la carne si mangiava nei giorni di grande festa e anche in questi giorni ciò che caratterizzava i pasti era la frugalità e la semplicità. Ciò non significava che mancassero tutti i nutrienti di cui abbiamo bisogno. Se riscopriamo ad esempio piatti tipici della cucina regionale italiana come la pasta e fagioli, i risi e bisi, i pisarei e fasò, la pasta alla norma, la pappa al pomodoro, la panzanella, le orecchiette alle cime di rapa, solo per fare qualche esempio, ci rendiamo conto che piatti tipici della cucina italiana che hanno sfamato per decenni i nostri nonni e genitori sono essenzialmente piatti vegani o vegetariani che apportavano carboidrati, proteine, grassi “buoni”, minerali e vitamine.

La dieta mediterranea, di cui questi piatti tipici sono l’espressione, è stata abbandonata dai popoli a cui per lungo tempo ha garantito una vita sana e longeva: le popolazioni mediterranee hanno aggiunto una gran quantità di calorie e grassi di derivazione animale ad una dieta tradizionalmente povera di proteine animali. Le regole di questa dieta furono tratte dall’elenco degli alimenti di un gruppo di italiani che vivevano in Cilento e che godevano di una salute molto più sana dei parenti immigrati negli Stati Uniti, a seguito di uno studio di un medico americano, Ancel Keys. Egli notò che la loro alimentazione si basava sul consumo di frutta e verdura di stagione in abbondanza; pochissima carne e pesce saltuariamente, sostituiti da legumi consumati tutti i giorni; grande varietà di cereali possibilmente integrali.

È stato il miglioramento delle condizioni socioeconomiche della popolazione dopo il secondo dopoguerra a portare all’abbandono in Italia della dieta mediterranea ed in tutto l’Occidente delle diete a prevalenza di cibi vegetali e all’istaurarsi di un’alimentazione ricca di grassi e proteine animali. Che questo cambiamento sia stato troppo repentino e che questa alimentazione sia innaturale per il corpo umano lo indicano le malattie epidemiche che causano il maggior numero di morti ed invalidi nei Paesi Occidentali, tutte irrimediabilmente legate all’alimentazione: obesità, cancro, ipertensione, arteriosclerosi, diabete mellito e osteoporosi sono le nuove “malattie del benessere”.

L’obesità è la diretta conseguenza della sovralimentazione, viene considerata la seconda causa di morte evitabile (dopo il fumo), colpisce un miliardo di persone al mondo (più degli 850 milioni di persone che soffrono di denutrizione) ed è in continuo aumento: l’Italia, inoltre, è ai primi posti nel mondo per quanto riguarda l’obesità infantile.

Il sovrappeso costituisce un fattore di rischio per le malattie vascolari, diabete, ipertensione, ipercolesterolemia, patologie muscolo-scheletriche, tumori (endometrio): le conseguenze dell’obesità sono gravi malattie mortali ed invalidanti.

Studi oncologici hanno rilevato che il tessuto adiposo è fonte di ormoni che influenzano alcuni tipi di tumore come quello dell’endometrio, e di macrofagi, cellule del sistema immunitario sfruttate dalle cellule tumorali per la propria proliferazione e legate all’insorgenza del diabete di tipo 2.

La soluzione contro l’obesità è adottare una dieta a base di cibi naturali vegetali (caratterizzati da alto potere saziante, elevata densità nutrizionale ma bassa densità calorica) abbinata ad un appropriato esercizio fisico per far sì che ci sia equilibrio tra le calorie consumate e quelle introdotte.

Lo Studio Cina (i cui risultati sono stati pubblicati in The China Study dal biochimico e nutrizionista T.Colin Campbell) prendendo in esame la dieta dei cinesi delle regioni rurali, ha evidenziato che i vegetariani, pur consumando maggiori quantità di calorie dei consumatori di carne, sono comunque più magri. Nello stesso studio è stato rilevato che chi segue un’alimentazione vegetale è fisicamente più attivo edè dotato di un metabolismo leggermente più alto a riposo grazie al quale viene bruciata una quantità superiore di calorie anziché depositarle sotto forma di grasso corporeo.

È dato certo ormai che ben un terzo dei tumori dipende da cattive abitudini alimentari, l’influenza dell’alimentazione sale al 75% per il tumore della prostata e del colon. Il solo fattore genetico non sembra più in grado di spiegare l’insorgenza del cancro: l’origine di ogni malattia è genetica ma i fattori ambientali quali la dieta e l’inquinamento ambientale sembrano essere determinanti nella latenza o nell’espressione genica. Molti studi hanno infatti dimostrato che quando si emigra si assume il rischio di malattia del paese di accoglienza: l’incidenza del tumore alla mammella, ad esempio, risulta elevata nei Paesi occidentali rispetto all’area asiatica, ma aumenta quando le donne orientali migrano in Occidente; i giapponesi emigrati negli Stati Uniti da 3 generazioni presentano il cancro al colon nella stessa percentuale degli americani mentre il tasso della stessa patologia in Giappone è restata la stessa dal momento della loro emigrazione ( ¼ rispetto a quella americana).

Gli elementi che favoriscono la comparsa del cancro sembrano essere un eccesso di grassi saturi, di proteine animali ed una carenza delle sostanze protettive, come fitocomposti e fibre, che appartengono tutte al mondo vegetale.

La dieta sembra influire sia sulla comparsa che sullo sviluppo del cancro: un’alimentazione ricca di proteine animali, grassi e cereali raffinati sembra aumentare notevolmente il rischio di ricomparsa e di morte nei pazienti sottoposti a chemioterapia per tumore al colon, al contrario nelle donne affette da tumore al seno allo stadio iniziale, una dieta a base di frutta e verdura e carente di proteine animali è stata correlata ad una riduzione del rischio di morte del 43%; sappiamo che una dieta ricca di carne produce un eccesso di ormoni sessuali che, causando un anticipo nella maturazione sessuale dei bambini ed un ritardo della menopausa, costituisce un fattore di rischio di tumore al seno nelle donne; infine l’eccessivo consumo di grassi (presenti soprattutto nei prodotti di origine animale) è associato al tumore alla mammella nelle donne e al carcinoma del colon in entrambi i sessi.

Se gli alimenti di origine animale costituiscono o sono strettamente legati a fattori di rischio tumorali, appartengono tutti al regno vegetale gli alimenti che ne riducono l’insorgenza: i vegetali non amidacei (pomodori, fagiolini, cipolle, finocchio, sedano, insalate….) sono utili nella prevenzione dei tumori alla bocca-faringe, stomaco e esofago; i carotenoidi contenuti nella frutta e verdura di colore arancione e negli ortaggi di colore verde scuro aiutano nel prevenire i tumori di bocca, faringe, laringe e polmone; il selenio previene il tumore alla prostata; il licopene presente nel pomodoro (ed in minor quantità nelle arance rosse, pompelmo rosa, carote, albicocche, angurie) difende dal cancro alla prostata; le crucifere, contenendo l’indolo-3-carbinolo proteggono dal cancro al seno; la catechina delle foglie del tè aiuta a prevenire il cancro alla pelle, seno, prostata, colon e polmone; i fitoestrogeni presenti in frutta, noci, mandorle, legumi e soia svolgono un ruolo di regolazione delle influenze ormonali e per  questo sembrano avere un’azione protettiva nei confronti del tumore alla mammella.

Abbiamo quindi un grande strumento di difesa dal cancro: una sana alimentazione a base di prodotti vegetali naturali.

  • L’arteriosclerosi, l’ipertensione e le altre malattie cardiovascolari rappresentano la maggiore causa di morti nei Paesi occidentali e l’incidenza nelle persone che consumano cibi di origine animale è nettamente superiore rispetto a quella che si riscontra in chi segue una dieta vegetale: il rischio di morte per queste patologie diminuisce del 24 %. La causa principale dell’arteriosclerosi è il livello di colesterolo LDL e di trigliceridi: è stato dimostrato che una dieta a base di cibi naturali di origine vegetale a basso contenuto di grassi è in grado di bloccare e fare regredire le placche arteriosclerotiche. Allo stesso modo questa dieta è in grado di normalizzare i valori di pressione arteriosa nei pazienti ipertesi grazie all’alto contenuto di potassio e alla prevenzione dei fattori di rischio che favoriscono l’ipertensione: obesità, elevato consumo di grassi e scarso apporto di fibre.
  • L’alimentazione è di fondamentale importanza anche nel processo infiammatorio: esistono cibi che favoriscono o danno l’avvio ai processi cellulari infiammatori, quali le carni rosse, quelle lavorate come i salumi, quelle ricche di grassi, i fritti e lo zucchero raffinato. Anche il consumo di grassi in eccesso apportati da carne, latticini e uova è legato ad una maggiore incidenza di infiammazione.
  • Il processo infiammatorio rappresenta un fattore di rischio per sovrappeso ed obesità; i cibi proinfiammatori favoriscono malattie come l’artrite, la malattia infiammatoria per antonomasia, i cui sintomi sono aggravati dal consumo di carne rossa per il suo alto contenuto di fosforo ed acido urico; il processo infiammatorio causa e favorisce l’invecchiamento e rappresenta un fattore di rischio tumorale.
  • Una dieta priva di prodotti di origine animale, al contrario, aumenta i livelli di anticorpi che proteggono dalle infiammazioni. I cibi antinfiammatori infatti sono tutti vegetali: pomodoro, aglio, tè verde, cavolo, arancia, peperoncino, soia, semi di lino, curcuma, origano, rosmarino solo per citarne alcuni.
  • Gli anziani che consumano molte verdure, inoltre, hanno meno probabilità di manifestare la cataratta.
  • Una dieta vegetale è stata associata a miglioramenti in patologie come l’artrite reumatoide, l’asma e le emorroidi. Regimi alimentari a basso contenuto di grassi e carboidrati raffinati con elevato apporto di fibre sono stati utilizzati con successo nel trattamento dell’acne e della diminuzione dell’udito. Infine, il consumo di latticini è stato associato alla sindrome premestruale.
  • Sappiamo ora con certezza che una dieta vegana è ritenuta molto utile per la prevenzione e la cura delle principali malattie croniche del mondo occidentale, che i cibi vegetali contengono molte meno sostanze nocive e molte più sostanze benefiche di quelli di origine animale, ma possiamo anche sostenere che questa dieta sia equilibrata e apporti i nutrienti necessari in tutte le fasi del ciclo vitale? Assolutamente sì ed è anche semplice.
  • I nutrienti di cui abbiamo bisogno, presenti senza esclusione nel mondo vegetale, comprendono:
  • CARBOIDRATI
  • PROTEINE
  • GRASSI
  • MINERALI
  • VITAMINE
  • FITOCOMPOSTI
  • FIBRE
  • ACQUA
  • I carboidrati sono sostanze chimiche che svolgono la funzione principale di fornire energia prontamente utilizzabile e dovrebbero rappresentare il 60-65% delle calorie totali. Si dividono in due categorie: carboidrati semplici (glucosio, fruttosio, saccarosio e lattosio) e carboidrati complessi (amidi).
  • I carboidrati complessi sono formati da molti carboidrati semplici e per essere assorbiti devono essere scissi in zuccheri: questo processo, nei cibi vegetali non raffinati (come legumi e cereali integrali), viene ulteriormente rallentato dalla presenza di fibre e consente un rilascio lento del glucosio, comportando rialzi contenuti e graduali della glicemia. Questa peculiarità aumenta il senso di sazietà e rende queste fonti di carboidrati utili anche per i diabetici.
  • I carboidrati si trovano soprattutto negli alimenti di origine vegetale: nei cibi animali sono presenti solo il glicogeno (nel fegato e nei tessuti muscolari) ed il lattosio, lo zucchero presente nel latte.
  • Questo, per essere digerito, deve essere trasformato in zuccheri semplici dall’enzima lattasi: la produzione di lattasi diminuisce con l’età, essendo il latte l’unica fonte di alimento per i mammiferi neonati, che in modo naturale smettono di produrla quando non vengono più allattati. Lo stesso avviene anche nell’essere umano che è l’unica specie a bere il latte di una mamma che non appartiene alla sua stessa specie e, soprattutto a berlo da adulto: ciò che viene definita “intolleranza al lattosio” (la riduzione di produzione di lattasi) è un processo naturale e regolato geneticamente nell’uomo dopo lo svezzamento. L’anomalia genetica riguarda invece gli individui che mantengono in età adulta la produzione di lattasi (solo il 25% della popolazione mondiale): questa mutazione sembra aver avuto origine nelle zone nordiche dell’Europa centrale per permettere la sopravvivenza in regioni in cui era scarso l’apporto di calcio e vitamina D.
  • L’intolleranza al lattosio è comune in Italia ed i sintomi alquanto fastidiosi (crampi addominali, gonfiore e flatulenza) dovrebbero fare intuire quanto sia innaturale continuare ad assumere latte, soprattutto quello vaccino.
  • Il consumo del latte vaccino non è consigliabile per una serie di altri motivi: contiene una percentuale di proteine più che doppia rispetto al latte umano (3,5% di proteine contro 1,2% del latte umano) il che non lo rende un alimento adatto ai neonati; contiene molto colesterolo, grassi saturi e grassi trans; ormoni della crescita, collegati a tumori dell’apparato riproduttore. La caseina contenuta nel latte inoltre, come tutte le proteine animali, a differenza di quelle vegetali aumentano il carico acido del nostro organismo. Per neutralizzare l’acido l’organismo si serve di calcio che ricava dalle ossa che vengono quindi indebolite da questo processo: a differenza di quanto vogliono farci credere le campagne pubblicitarie che altro non sono che strategie commerciali, i Paesi in cui il tasso di osteoporosi è più alto sono quelli in cui si consumano più latte e latticini.
  • I carboidrati sono presenti nei cereali (da porre alla base della propria dieta, preferendo quelli integrali), nei legumi e nella frutta (carboidrati semplici).
  • Le proteine hanno funzioni di catalizzazione delle reazioni biochimiche vitali per il metabolismo (enzimi), funzioni strutturali (come la cheratina che costituisce la struttura dei capelli), di trasporto (l’emoglobina trasporta l’ossigeno), ed immunitarie: sono formate da aminoacidi considerati i “mattoni” su cui si costruisce la vita ed il loro apporto calorico nella dieta non dovrebbe rappresentare più del 10-15% del totale.
  • Gli aminoacidi “essenziali”, cioè quelli che il corpo non è in grado di produrre autonomamente e deve assumere tramite il cibo, sono 8. Sono le piante che sintetizzano questi aminoacidi: l’uomo ha quindi la possibilità di assumerle direttamente dai vegetali o indirettamente dalla carne di altri animali che le hanno a loro volta mangiate e metabolizzate.
  • La carne viene considerata una buona fonte di proteine in quanto contiene tutti gli 8 aminoacidi essenziali nelle giuste proporzioni a differenza di quelle vegetali che pur contenendo tutti i 20 aminoacidi presentano carenze di uno o più aminoacidi essenziali: ma la completezza proteica non deve essere valutata sul singolo alimento quanto sull’insieme dei cibi assunti nell’arco della giornata e per raggiungerla con una dieta vegana basta variare il consumo di cibi vegetale che le contengono.
  • La quantità di proteine necessaria è stata stimata in 0,8-1,0 gr/kg di peso corporeo al giorno e questa quantità viene facilmente raggiunta con i cibi vegetali: seguendo una dieta a base di alimenti animali invece questa quantità aumenta enormemente, ben oltre il fabbisogno giornaliero. Le diete iperproteiche in voga in questi tempi assicurano una perdita di peso molto veloce (obiettivo raggiungibile peraltro da qualsiasi dieta ipocalorica) spesso causano problemi di salute a lungo termine quali cardiopatie, disturbi ossei e articolari (abbiamo visto l’effetto delle proteine animali sul calcio), problemi renali, cancro.
  • Assumere proteine vegetali invece permette di introdurre nell’organismo anche altre sostanze essenziali quali carboidrati, vitamine, minerali, fibre e pochi grassi che svolgono un’azione protettiva per una lunga serie di patologie.
  • Le maggiori fonti di proteine vegetali sono rappresentate dai legumi (fagioli, lenticchie, soia, piselli, lupini, fave, ceci, fagiolini, cicerchie) frutta secca (mandorle, nocciole, noci, noci pecan, anacardi, arachidi) e semi oleaginosi (di zucca, girasole, sesamo, lino).
  • Cibi ricchi di proteine sono anche i derivati della soia: il tempeh, ricavato dalla fermentazione dei fagioli della soia gialla; il tofu, ottenuto cagliando il latte di soia; lo yogurt di soia, privo di lattosio e colesterolo. E i derivati del frumento come il seitan, ottenuto dal glutine ed utilizzato come sostituto della carne. Anche molti ortaggi (cavolfiori, spinaci, patate) ed alcuni frutti (castagne, avocado, pistacchi, cachi) contengono proteine di alta qualità.
  • A parità di apporto proteico, quindi, chi consuma proteine vegetali ha molti benefici in più rispetto a chi copre il fabbisogno proteico con le proteine animali.
  • I grassi non devono superare il 30-35% delle calorie totali della dieta ed hanno svariate funzioni nell’organismo da quello energetico a quello protettivo di tessuti e organi interni tramite il tessuto adiposo, nonché di regolazione dell’equilibrio ormonale. L’aumento del consumo di cibi animali e raffinati ha portato ad una crescita vertiginosa della percentuale di grassi assunta nella dieta: più questa aumenta più è alto il rischio di patologie quali sovrappeso, obesità e alti livelli di colesterolo nel sangue.
  • Il colesterolo è un grasso presente esclusivamente nel regno animale e non è necessario assumerlo tramite l’alimentazione in quanto l’organismo è in grado di produrlo autonomamente in quantità necessaria.
  • I grassi dannosi per la salute, che favoriscono l’aumento dei livelli di colesterolo nel sangue e le patologie ad esso correlate, si presentano allo stato solido a temperatura ambiente: essi sono prevalentemente di origine animale (burro, lardo, strutto) ed in misura ridotta di origine vegetale (oli tropicali, margarina), si definiscono saturi, trans e idrogenati (perché ottenuti dall’idrogenazione dei grassi vegetali che li rende solidi).
  • Molta attenzione, a questo proposito, deve essere posta all’olio di palma che purtroppo, a causa del suo prezzo ridotto, troviamo nella maggior parte dei prodotti confezionati dolci e salati e nelle creme spalmabili più diffuse, prodotti che spesso presentano la dicitura “olio vegetale” senza specificarne il tipo. Questo olio contiene un’elevata quantità di grassi saturi ma i danni che provoca non si limitano alla nostra salute: la sua coltivazione sta causando la deforestazione di ampissime porzioni di foreste pluviali di Costa d’Avorio, Uganda ed Indonesia: centinaia di ettari di foresta ogni anno vengono incendiati per preparare il terreno per la coltivazione della palma da olio, privando specie animali e vegetali del proprio habitat. Tristemente nota è la strage degli Orangutan di Sumatra in Indonesia, vittime prima di questi incendi indiscriminati e poi dei cacciatori pagati per eliminarli dalle piantagioni di palma dove si rifugiano una volta che il loro habitat è stato distrutto. L’unica arma che abbiamo per evitare tutto questo è prestare molta attenzione alle etichette dei prodotti e boicottare quelli che utilizzano olio di palma o oli vegetali non specificati.
  • I grassi che si presentano liquidi a temperatura ambiente (oli) sono formati da acidi grassi mono e poli insaturi: fra questi gli acidi grassi omega-3 e omega-6 devono essere assunti tramite l’alimentazione in quanto non prodotti dall’organismo.
  • Essi sono importanti componenti delle membrane cellulari e precursori di sostanze predisposte alla regolazione della pressione sanguigna e della risposta infiammatoria; gli acidi grassi omega-3 sono ritenuti fattori protettivi per il cuore e nella prevenzione delle aritmie fatali, hanno un’importante funzione antinfiammatoria e di prevenzione delle demenze e di alcune psicosi, sono fondamentali per lo sviluppo del feto.
  • Sono presenti soprattutto nel mondo vegetale in frutta secca, legumi, cereali e negli oli che da questi si ricavano: nei cibi animali le loro quantità diminuiscono sensibilmente rispetto agli oli vegetali (di lino e soia ad esempio): assumerli tramite cibi animali fa sì che oltre ad essi vengano ingeriti grassi saturi che contrastano con la loro azione benefica.
  • Il rapporto tra omega-6 e omega-3 deve essere di 3-4:1 (contro il rapporto 13:1 che si riscontra attualmente nella dieta italiana): se gli omega-3 infatti hanno solo effetti positivi sulla salute umana, gli omega-6 sono precursori sia di sostanze ad attività antinfiammatoria che pro infiammatoria e non devono quindi prevalere oltre il rapporto indicato. Essendo gli omega-6 abbondanti in natura (olio di oliva e di semi, latticini, carne, crostacei) il rischio non è una carenza quanto un eccesso; si deve invece prestare attenzione al consumo di acidi grassi omega-3 per mantenere questa proporzione. Ancora una volta il regno vegetale ci dimostra di avere tutto ciò di cui abbiamo bisogno: semi di lino, noci, soia, verdure a foglia verde, olio di canapa, alcune alghe ci forniscono questi utilissimi acidi grassi. L’olio di semi di lino è la fonte vegetale più ricca di omega-3 (15 volte in più rispetto ai pesci che ne contengono la quantità maggiore): ne basta un cucchiaino al giorno per garantirne l’apporto necessario.
  • Anche per quanto riguarda l’apporto di grassi quindi, una dieta vegetale ci fornisce le giuste dosi di grassi salutari (acidi grassi insaturi) preservandoci naturalmente da quelli saturi, estremamente dannosi.
  • Le vitamine sono necessarie in piccole quantità ma sono fondamentali per il nostro organismo che, ad esclusione della vitamina D, non è in grado di produrle e deve quindi assumerle dagli alimenti. Tutte le vitamine infatti sono prodotte dalle piante e dai microrganismi quindi anche quelle assunte da cibi animali derivano indirettamente da vegetali.
  • Cereali integrali, verdura a foglia e legumi contengono le vitamine del gruppo B (esclusa la B12) e l’acido folico, coinvolto nella produzione di globuli rossi ed importante durante il primo trimestre di gravidanza per prevenire lo sviluppo di spina bifida nel feto.
  • Frutta e verdura contengono vitamina C, potente antiossidante che favorisce la salute di denti e gengive ed aiuta il corpo ad assimilare il ferro, e vitamina A, utile per la salute di pelle, ossa, denti ed occhi.
  • La vitamina E, dal potente effetto antiossidante, è contenuta nei cereali integrali, nella frutta secca e nei legumi. La vitamina K, fondamentale per la coagulazione del sangue, è presente in verdura, legumi e cereali integrali.
  • La vitamina B12 presenta un caso più problematico: viene prodotta dai microrganismi presenti nel terreno e nell’intestino degli animali, compreso il nostro.  Questa quantità prodotta dall’intestino però non basta ed è necessario integrarla con l’alimentazione.  Studi scientifici hanno dimostrato che le piante coltivate in terreni ricchi di vitamina B12 assorbono facilmente questa sostanza ma i terreni utilizzati oggi dall’agricoltura sono ben lontani dal presentare questa ricchezza di nutrimenti. In uno stato di natura gli esseri umani otterrebbero questa vitamina dai residui di terriccio sulle verdure ma le misure di igiene degli alimenti adottate nella nostra società non ci permettono di venire in contatto i microrganismi che producono questa vitamina.
  • La carenza di vitamina B12 è comune sia negli onnivori che nei vegani: se ne raccomanda pertanto l’integrazione nelle diete a base vegetale dal momento che i cibi vegetali ne sono sprovvisti, ed in tutte le altre diete dopo i 50 anni, età in cui l’assorbimento di B12 può subire un drastico calo.
  • Il fabbisogno giornaliero è pari a 1,5mg che i vegani possono assumere tramite cibi addizionati (latte vegetale o cereali da colazione fortificati) o integratori (si può assumere una dose di 2000 mg una sola volta a settimana).
  • I fitocomposti sono sostanze presenti nelle piante (fito=pianta) nelle quali conferiscono struttura e colore per attirare, ad esempio, gli impollinatori e svolgono la funzione di difesa dall’attacco di radicali liberi e predatori. Nel nostro organismo il loro ruolo è analogo ed importantissimo nel processo di inattivazione dei carcinogeni.
  • Li troviamo esclusivamente nei cibi vegetali, quali ad esempio:
  • Caffè (acidi fenolici) con azione antiossidante e antitumorale;
  • Cavoli, broccoli, soia, pomodori, cipolla, sedano, frutta, cacao (flavonoidi) con funzione antitumorale, antinfiammatoria e antiormonale;
  • Cereali integrali, soia e semi oleaginosi, legumi, frutti di bosco (fitoestrogeni) ad azione antiossidante e di prevenzione di malattie cardiovascolari;
  • Aglio, cipolla e porro (sulfidi) che potenziano la risposta immunitaria;
  • Agrumi e spezie (terpeni) con proprietà antibatteriche, antiossidanti e antitumorali;
  • Crucifere – cavoli, broccoli, verza, rucola, ravanelli (glucosinolati) con azione antitumorale;
  • Oli vegetali (fitosteroli) con effetto di riduzione della sintesi e dell’assorbimento del colesterolo;
  • Frutta e verdura di colore giallo-arancio (pomodori, melone, anguria) che contengono carotenoidi con azione antitumorale, antiossidante  e preventiva di patologie oculari.
  • I minerali sono sostanze inorganiche indispensabili per le funzioni vitali e la crescita dell’organismo e non essendo sintetizzati dal corpo umano, devono essere assunti attraverso il cibo. Il fabbisogno di minerali è minimo ma la quantità apportata con l’alimentazione deve essere costante in modo da bilanciarne la perdita che è costante attraverso sudore, urine e feci.
  • I cibi vegetali contengono i minerali in quantità adeguate ma spesso la raffinazione e la cottura ne diminuiscono il quantitativo.
  • Il calcio è presente nelle ossa, nei denti ed in piccola quantità nel sangue; collabora alla coagulazione sanguigna, alla conduzione nervosa e alla contrazione dei muscoli, primo fra tutti il cuore.
  • Il fabbisogno di calcio in chi segue una dieta vegana (circa 600 mg/giorno) è minore rispetto a quello di un onnivoro in quanto è minore la quantità di calcio persa con le urine: le proteine vegetali presentano bassi livelli di aminoacidi solforati, presenti invece in grandi quantità nelle proteine animali. Questi aminoacidi acidificano l’organismo ed per ripristinare il giusto PH viene prelevato calcio dalle ossa: più si consumano proteine animali, quindi, più aumentano le perdite di calcio e il rischio per le nostre ossa.
  • Il calcio è presente nei legumi (100 gr di lenticchie contengono 7,54 mg di ferro contro i 4 mg della carne di cavallo), nelle verdure verde scuro, nella frutta essiccata come fichi e albicocche, nelle mandorle, basilico, timo, salvia, menta, origano, finocchio. Un’ottima fonte di calcio di facile assorbimento è costituita dalle acque ad alto contenuto di calcio e povere di sodio: berne 1,5 litri al giorno permette di coprire quasi totalmente il fabbisogno giornaliero previsto per chi segue una dieta vegetale ma anche la normale acqua del rubinetto può apportarne una buona quantità.
  • Per fissare il calcio nelle ossa è necessaria una giusta dose di vitamina D, il cui apporto risulta scarso in tutte le diete ma che fortunatamente viene prodotta dall’organismo a seguito dell’esposizione della pelle al sole: bastano 20 minuti un paio di volte a settimana per sintetizzarne la giusta quantità.
  • Il ferro interviene nella formazione dell’emoglobina e dei muscoli e trasporta ossigeno ed anidride carbonica nel sangue. Nei vegetali è presente il ferro non-eme mentre nei cibi animali oltre a questo (60% del ferro totale), si trova il ferro eme, più facilmente assimilabile.
  • Chi segue una dieta vegana assume di solito quantitativi maggiori di ferro rispetto agli onnivori e per rendere questo ferro meglio assimilabile può ricorrere a qualche accorgimento evitando di assumere i cibi che lo contengono contemporaneamente ad altri che ne inibiscono l’assimilazione, quali tè, caffè, cacao che contengono tannini, fibre, calcio, e associarlo ad altri che lo favoriscono come la vitamina C di frutta e verdura, legumi ammollati e cerali germinati.
  • Cibi vegetali che contengono ferro sono: cereali integrali, frutta secca, legumi, semi oleaginosi, radicchio e rucola.
  • Lo iodio, che regola l’ormone tiroideo, è facilmente assimilabile, seguendo una dieta vegana, grazie al consumo di sale marino integrale ed alghe: un cucchiaino di sale iodato al giorno fornisce la quantità raccomandata. L’utilizzo delle alghe nella cucina vegana è il modo migliore per ricreare piatti che “sanno di mare”: ne basta un’aggiunta minima, ad esempio, all’acqua di cottura degli spaghetti o al sugo per ottenere l’effetto desiderato.
  • Le fibre sono presenti esclusivamente negli alimenti di origine vegetale e non sono digeribili dall’intestino umano: una delle loro funzioni più importanti è di aumentare il contenuto intestinale assorbendo liquidi, favorendo la peristalsi e prevenendo la stipsi; i cibi che ne sono molto ricchi, poi, risultano poco calorici ma molto voluminosi, favorendo il senso di sazietà con un apporto ridotto di calorie; la loro presenza, come abbiamo già visto, rallenta l’assorbimento di glucosio e colesterolo, prevenendo l’arteriosclerosi; contribuiscono inoltre al funzionamento del sistema immunitario garantendo la salute della flora intestinale.
  • L’acqua è un elemento di vitale importanza nella dieta e la quantità che se ne raccomanda varia da 1,0 a 1,5 litri al giorno. Rappresenta un valido mezzo di assunzione di calcio e fluoro e se ci si trova in dubbio su quale acqua consumare, si può facilmente assumere tramite la frutta che ne è naturalmente ricca: se ci nutrissimo solo di frutta (l’anguria ne è composta per il 92 %) il nostro fabbisogno diminuirebbe molto perché la otterremmo direttamente dagli alimenti.
  • La natura vegetale riesce pertanto a fornirci tutti i nutrimenti di cui abbiamo bisogno per una dieta bilanciata ottimale.
  • Nella transizione da un regime alimentare onnivoro ad uno vegano non si deve temere di non essere in grado di bilanciare la propria dieta correttamente: dobbiamo essere pazienti con noi stessi e darci il tempo di riscoprire tutti i meravigliosi prodotti che la natura ci offre e che, purtroppo abbiamo dimenticato. Non abbiate fretta all’inizio di capire se il fabbisogno di ogni nutriente è rispettato, del resto “da onnivori” quando mai vi siete posti questo problema? La gioia di conoscere nuovi prodotti e di rivalutare quelli conosciuti vi stimolerà a variare il più possibile in modo da assumere tutti i nutrienti di cui avete bisogno.

Per la scelta di un’alimentazione vegana risulta fondamentale la motivazione etica.

Cosa ci dice la scelta alimentare vegana dell’etica di una persona? Che rispetta la vita.

Più della metà degli Italiani (55,3 % a inizio 2013 con un aumento rispetto all’anno precedente di 13,6 punti) hanno in casa un animale domestico. Gli animali di cui ci cibiamo non hanno niente di diverso dai compagni di vita che cresciamo nelle nostre case: come loro (e come noi) sono “esseri senzienti”, sono dotati di un alto livello di consapevolezza, intelligenza e sensibilità, provano sentimenti quali dolore, sofferenza e felicità. Avendo da tempo scoperto di avere in comune buona parte del nostro patrimonio genetico con gli animali (condividiamo il 97 % del genoma con gli oranghi, quasi il 93 % con i topi di campagna) risulta assurdo e presuntuoso ritenerci l’unico animale dotato di sensibilità e coscienza.

Partendo dalla consapevolezza che non c’è alcuna differenza tra la sofferenza provata da un cucciolo di cane e uno di qualunque altra specie animale, è necessario far conoscere la violenza ed il dolore che si cela dietro il consumo di prodotti animali. Queste torture avvengono in allevamenti intensivi e macelli lontani e ben nascosti dagli occhi dei consumatori in modo che il prodotto finito che ritroviamo al supermercato non dia più la percezione di appartenere al cadavere di un essere vivente. I bambini non si accorgono più che gli animali che ispirano loro tanta tenerezza sono poi quelli che si ritrovano nel piatto: sarebbero così appetibili se ricominciassimo a chiamare il prosciutto o lo spezzatino con il loro nome? Se li definissimo per quello che sono cioè parti del maialino del loro cartone animato preferito o del vitellino che vogliono accarezzare?

Negli allevamenti gli animali smettono di essere considerati esseri viventi e diventano merci che devono essere lavorati e trasformati: che lo scopo sia produrre latte, uova o carne l’esistenza degli animali allevati culmina senza eccezioni con la morte violenta.

Il processo di produzione e trasformazione deve essere il più economico possibile in quanto i consumatori, che in questo processo di sfruttamento e violenza hanno una parte assolutamente attiva rappresentandone la domanda, pretendono un prodotto in quantità sempre crescente a prezzi sempre più bassi: siamo conseguentemente giunti alle aberrazioni della produzione di massa e dell’allevamento intensivo.

Allo stesso modo non sono accettabili neppure gli allevamenti in cui vengono seguite le cosiddette regole del “benessere animale”, contraddizioni in termini in quanto la concezione dell’animale come pura merce e l’uccisione finale sono comuni ed ugualmente condannabili.

La pratica di allevamento intensivo è l’unica che riesce a fare fronte alla domanda di una popolazione in continua crescita che ogni anno consuma sempre più carne: non c’è abbastanza spazio per allevare tutti gli animali di cui c’è richiesta quindi un numero elevatissimo viene allevato in uno spazio molto ridotto e per risparmiare sui costi diminuisce la manodopera utilizzata e conseguentemente le cure prestate agli animali.

Il numero maggiore di animali uccisi è rappresentato da polli e galline ma la filiera delle galline ovaiole e quella dei polli da carne prendono due strade diverse: le femmine che nascono dalle incubatrici non diventano galline ovaiole e i maschi polli da carne come si potrebbe pensare.

I polli da carne vengono allevati fin da pulcini in capannoni che una volta cresciuti non avranno le dimensioni adeguate per contenerli tutti (impiegano circa 30 giorni, naturalmente ne impiegherebbero 100): non avranno più spazio sufficiente per muoversi e per la crescita troppo rapida saranno affetti da problemi articolari. Il luogo in cui si trovano non viene mai pulito, l’aria è resa irrespirabile dalle esalazioni dei loro escrementi, causando negli animali patologie respiratorie, problemi agli occhi e spesso la morte. La poca manodopera che se ne occupa raccoglie solo saltuariamente i cadaveri di chi non ce l’ha fatta che restano quindi diverso tempo a contatto con i sopravvissuti. Questi a soli due mesi di vita hanno raggiunto innaturalmente le dimensioni richieste e vengono stipati violentemente in cassette ammassate sui camion che li portano al macello dove, appesi a testa in giù, vengono fatti passare attraverso una macchina che taglia loro la gola.

Più lunga è l’agonia delle galline ovaiole.

Le galline ovaiole nascono in immense incubatrici ma solo la metà dei pulcini sono femmine: l’altra metà, i maschi, che non produrranno uova e che non potranno diventare polli da carne perché di una razza a crescita molto più lenta rispetto a questi ultimi, rappresentano per il produttore di uova solo degli scarti che non conviene allevare. Posizionati su un nastro trasportatore vengono smistati dalle femmine e tritati vivi o soffocati in sacchi di plastica (lo smaltimento di questi pulcini salì alla ribalta delle cronache all’indomani dello scandalo della “mucca pazza” quando venne vietato di utilizzarli per la produzione di mangimi per animali). Alle femmine viene invece tagliata la punta del becco (dotata di terminazioni nervose quindi sensibile al dolore) per evitare che una volta stipate in gabbie piccolissime e sovraffollate diventino aggressive a causa dello stress subito e si feriscano. Nei due anni di vita che restano loro produrranno circa 250 uova l’anno: dieci volte il numero che produrrebbero naturalmente se ci ricordassimo che sono uccelli come tutti gli altri e che depongono le uova solo in determinati periodi dell’anno per la loro riproduzione. Dovendo produrre un numero così alto di uova e non essendo mai esposte alla luce solare esauriscono le riserve di calcio andando incontro a pesanti dolori articolari che portano spesso alla morte di sete o fame a causa dell’immobilità.

Le galline ovaiole allevate a terra non vivono all’aria aperta ma in capannoni e dopo uno, massimo due anni, come le cugine allevate in gabbia, vengono portate al macello per diventare carne da bolliti.

Questo è uno dei motivi per cui chi è vegano sceglie di non consumare uova: la loro produzione comporta l’uccisione di animali allo stesso modo del consumo di carne.

Anche quelle provenienti dai piccoli allevamenti o dai contadini di fiducia provengono da galline che finita la naturale produzione di uova non verranno sicuramente lasciate morire di vecchiaia.

Lo stesso accade per i bovini, che siano razze allevate per la produzione di carne o per quella di latte. Se si tratta di razze da carne la loro crescita avverrà in stalle strette e in tempi innaturali fino a dimensioni esagerate per le loro stesse ossa che non le sosterranno una volta adulte.

Ci sono poi le varietà selezionate per la produzione di latte. Siamo così abituati ad avere il latte fresco ogni mattina sulle nostre tavole che diamo erroneamente per scontato che le mucche producano latte sempre: come tutti i mammiferi (e come per noi donne) la mucca per produrre latte deve partorire e una volta finito il periodo di produzione, perché questa ricominci, è necessaria un’altra gravidanza.

Le mucche da latte vengono quindi ingravidate, solitamente artificialmente, e a poche ore o giorni dal parto vengono divise dal figlio, creando in loro una naturale disperazione data dal negato istinto materno ed impedendo la creazione di qualunque rapporto con il figlio che si trova spaventato e solo.

Se femmina prenderà presto il posto della madre e verrà fatta partorire una volta l’anno per permettere la produzione di 10 volte la quantità di latte che produrrebbe in natura per suo figlio e dopo 3 anni verrà macellata. Se maschio dovrà seguire un’alimentazione innaturale povera di ferro in modo che la sua carne rimanga bianca, quindi anemica, e possa essere venduta come carne bianca di vitello. A soli sei mesi di vita verrà mandato al macello legato su camion senza bere né mangiare, a qualsiasi temperatura, dove verrà prima stordito poi sgozzato.

Come i pulcini sono scarti della produzione di uova, allo stesso modo i bufalotti sono scarti del latte di bufala, utilizzato per produrre la famosa mozzarella: essi non sono allevati seppur per breve tempo come i vitelli, ma non esistendo un mercato per la loro carne, vengono spesso abbandonati o lasciati morire di fame nelle stalle.

Essere vegetariani quindi non basta per evitare l’uccisione di animali: solo eliminando il consumo di latte e derivati e uova si può raggiungere questo risultato.

Sorte migliore non capita ai maiali, allevati per la produzione di carne: le scrofe detenute in gabbie grandi appena quanto il loro corpo e tenute per tutto il corso della loro breve vita in posizione sdraiata, vengono inseminate, partoriscono e allattano senza poter accudire i loro piccoli, le sbarre sono sempre presenti a dividerli e causano alle scrofe piaghe dolorosissime mai curate. Non potendosi muovere naturalmente molte schiacciano non intenzionalmente i loro figli e se questi non sono in grado di raggiungerle per l’allattamento, agonizzano fino alla morte.

È innegabile che tutte le sofferenze che questi animali provano in vita vengano trasmesse energeticamente e chimicamente nei piatti di chi le consuma: anche nella cacciagione uccisa da cacciatori, che la difendono come sana perché ancora selvatica e naturale, sono presenti enormi quantità di tossine da stress dovute alle modalità di cattura e uccisione, spesso preceduta da inseguimenti di ore.

La conoscenza delle condizioni di allevamento e delle uccisioni che necessariamente stanno dietro la produzione di uova e latticini è necessaria come primo passo verso la libertà di scelta e, ci auguriamo, verso il cambiamento: passando ad un’alimentazione vegetariana si salvano già circa 20 animali l’anno, eliminando anche uova e latticini si salvano anche tutti i pulcini, vitelli e bufalini considerati “scarti” di produzione.

Eliminando dalla dieta i prodotti di derivazione animale, il regime alimentare vegano rappresenta una scelta ecologica il linea con la necessità di seguire uno “sviluppo sostenibile”: come sancito dalla Comunità Europea, lo sviluppo socio economico non deve recare danno all’ambiente e alle risorse naturali, necessarie per la prosecuzione dell’attività umana e lo sviluppo delle generazioni future.

Per la concretizzazione di uno sviluppo sostenibile diventa di fondamentale importanza correggere il comportamento ed il consumo del singolo: solo in questo modo si otterrà un mutamento dell’impatto ambientale dell’intera collettività. Il cicli di produzione, poi, devono essere pianificati (dalla produzione all’utilizzazione) in modo da ottimizzare la produzione ed il consumo di energia, evitando il depauperamento delle risorse naturali, favorendo il riciclo e la riutilizzazione e diminuendo la produzione di rifiuti.

A livello governativo ONU e Comunità Europea hanno sancito da diversi anni queste necessità ma le politiche governative non muteranno se non cambieranno le richieste dei consumatori che devono per questo essere informati sulle loro reali responsabilità: è nata a questo scopo l’ecologia della nutrizione.

Recentissimi studi di questa disciplina hanno preso in considerazione diversi regimi alimentari per analizzarne la sostenibilità. I ricercatori sono concordi nell’affermare che a parità di tipologia di produzione (intensivo o non intensivo) maggiore è il consumo di carne e maggiore risulta l’impatto ambientale: per aumentare di 1 kg ad un vitello servono 13 kg di mangime, 11 kg ad un vitellone, 24 kg ad un agnello.

La produzione di carne di manzo risulta essere quella con il peggior rapporto tra apporto nutrizionale e impatto ambientale: richiede 28 volte più terra, 11 volte più acqua, 5 volte più emissioni di gas serra e 6 volte più fertilizzanti rispetto alla produzione di altri carni, uova e latticini. Questi a loro volta necessitano da due a sei volte la quantità di risorse necessarie a produrre la stessa quantità di calorie di grano, riso o patate.

I bovini arrivano a consumare fino a 790 kg di proteine vegetali per produrne meno di 50 kg, gli animali infatti trasformano in carne adatta all’alimentazione solo circa il 10% del cibo che ricevono.

I metodi di produzione chimico-intensivi, a parità di dieta (onnivora o vegana) hanno un impatto ambientale maggiore rispetto ai metodi biologici: nell’agricoltura biologica devono essere utilizzati solo preparati vegetali, minerali ed animali non tossici per la lotta ai parassiti delle piante, nella trasformazione delle materie prime non possono essere utilizzati conservanti o coloranti; i terreni utilizzati, poi, non devono essere stati trattati con prodotti chimici da almeno due anni e devono essere separati da quelli con produzione non biologica; tutte le fasi della produzione e trasformazione fino al confezionamento sono sottoposti a controlli  speciali. La produttività dell’agricoltura e dell’allevamento biologici non sono però in grado di soddisfare la domanda attuale in Italia: gli allevamenti intensivi forniscono il 43% del quantitativo mondiale di carne, dato che arriva oltre il 50% se si considera solo la carne suina ed il pollame.

Dagli anni ’50-’60 la richiesta di carne globale è fortemente aumentata e conseguentemente il numero di animali allevati che dal 1961 è aumentato addirittura del 60 %: da 3,1 a 4,9 miliardi (bovini, suini e ovini), da 4,2 a 15,7 miliardi (volatili).

I consumi di materie prime e risorse dovuti all’alimentazione hanno un grande impatto sociale: solo oggi moriranno circa 24.000 mila persone a causa di denutrizione, malnutrizione e malattie ad essa collegate, più di un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile, circa 917 milioni di persone non ha abbastanza cibo ed in Occidente oltre un miliardo di individui è sovralimentata e questo miliardo è costituito da persone carnivore.

Non c’è da stupirsi di questi dati se si vanno ad esaminare quelli della produzione agricola mondiale: il 77 % dei cereali prodotti in Europa viene utilizzato per i mangimi animali, negli Stati Uniti si arriva all’87%; il 90 % della soia prodotta a livello mondiale e la metà dei cereali sono destinati al consumo animale anziché umano.

Questa situazione sta addirittura peggiorando per fare fronte alla richiesta in aumento di prodotti animali da parte dei paesi in via di sviluppo nei quali il consumo di carne è considerato un indicatore di benessere sociale, uno status symbol.

Il 4% dell’impatto totale dell’alimentazione sull’ambiente è data dalle conseguenze delle deiezioni animali sull’ecosistema, comparabile a quelle di fertilizzanti e pesticidi chimici: ogni anno in Italia 19 milioni di tonnellate di deiezioni inutilizzabili come fertilizzante vengono smaltite tramite spargimento sui terreni, causando inquinamento da sostanze azotate e conseguente inquinamento delle falde acquifere e eutrofizzazione dei mari.

Il 5-13% dell’impatto totale è dovuto al consumo del territorio: l’Europa è in grado di fornire abbastanza vegetali per nutrire tutti i suoi abitanti, ma riesce a produrre solo il 20% delle proteine per alimentare i suoi animali d’allevamento, il restante 80% viene importato dai paesi del Sud del mondo.

Per ovviare a questa mancanza di spazio e all’aumento della richiesta si assiste alla distruzione di milioni di ettari di foresta pluviale (17 milioni di ettari ogni anno) per fare spazio ai pascoli: l’88% dei terreni disboscati nella foresta Amazzonica è stato destinato a questo uso, gli alberi abbattuti vengono bruciati sul posto in quanto non è conveniente commercializzarli. Il suolo di questi pascoli, non adatti a queste colture, diventano presto sterili: lo stesso avviene in Africa dove la maggior parte dei terreni impiegati per il pascolo dell’allevamento estensivo è in via di desertificazione.

Se gli alimenti di origine vegetale arrivano quasi direttamente sulle nostre tavole, quelli di origine animale devono essere trasformati, lavorati, prodotti e trasportati: il 15-18% dell’impatto totale è infatti rappresentato dalle conseguenze della respirazione di composti chimici inorganici, il 20-26% dal consumo di combustibili fossili (per ogni caloria di carne bovina vengono utilizzate 78 calorie di combustibile fossile, 36 per una di latte contro le 2 necessarie per una caloria di soia).

Ma il fattore che ha l’impatto più elevato è il consumo di acqua (41-46% dell’impatto totale): la zootecnia e l’agricoltura consuma il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta. È stato calcolato che tutta l’acqua consumata da una famiglia americana media in un anno basta per produrre solo 5 kg di carne bovina: considerando che la media di consumo giornaliero di carne è pari a 100 gr al giorno (per alcune popolazioni questo consumo va moltiplicato per 10) questo quantitativo di carne non basterà ad una famiglia neanche per una settimana. Il risparmio di acqua che cerchiamo di ottenere ogni giorno nella vita quotidiana ha ben poco di ecologico se confrontato a quanto potremmo risparmiare cambiando la nostra alimentazione. La catena produttiva necessaria ad ottenere 1 kg di carne richiede circa 15.000 litri di acqua, contro i 1000 litri necessari per produrre la stessa quantità di cereali.

Dall’analisi di questi dati è emerso che la dieta onnivora è ambientalmente insostenibile mentre la dieta vegana, che sia ottenuta con metodi produttivi intensivi o biologici, è in grado di far fronte alle necessità presenti senza compromettere il soddisfacimento di quelle delle future generazioni, rispettando i limiti delle capacità di carico degli ecosistemi dai quali dipende. Un’alimentazione vegana porta ad un risparmio di risorse del 75% rispetto ad un’alimentazione vegetariana (che comprenda ancora latte e uova); se si mette a confronto l’alimentazione vegana con quella onnivora il risparmio arriva addirittura quasi al 90%.

Albert Einstein dichiarò che “niente aumenterà le possibilità di sopravvivenza sulla terra quanto l’evoluzione verso un’alimentazione vegetariana”: se le popolazioni dei Paesi emergenti, in continua crescita, dovessero continuare a considerare il consumo di carne un segno di ricchezza e arrivassero a richiederne la quantità consumata in Occidente nessun ecosistema potrebbe sopravvivere. L’unica possibilità che ci resta per evitare questo processo è diminuire o meglio eliminare il consumo di carne nei Paesi occidentali e convincere i Paesi orientali a mantenere la loro alimentazione a base prevalentemente vegetale.

Sono molte le ragioni che ci spingono verso il regime alimentare vegano e se è ancora il timore della perdita di sapori piacevoli che ci frena non dobbiamo spaventarci: il nostro cervello impiega circa 3 settimane a cancellare il ricordo di vecchi sapori e a non farceli più desiderare. Spesso fino a quando non si sta male fisicamente è il gusto a dettare le nostre scelte alimentari: non aspettiamo che sia il corpo con la malattia a farci capire che stiamo sbagliando.

Passando da una dieta onnivora ad una vegana vi accorgerete che il vostro palato si pulirà, soprattutto dal sale e dagli zuccheri raffinati, e le vostre papille gustative impareranno a conoscere i sapori autentici richiedendo sempre più semplicità nei vostri piatti. Vi libererete inoltre della paura delle calorie in quanto i cibi vegetali sono meno calorici ma, di contro, potrete mangiarne quantità maggiori.

E se non vi abbiamo ancora convinto ci giochiamo l’ultima carta: sperimentate voi stessi, e osservate i risultati. Abbiamo piena fiducia che non ve ne pentirete.

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I Grassi

I Grassi

by Francesco Favorito

I grassi sono una componente fondamentale per le caratteristiche organolettiche dei nostri cibi e per la perfezione del mantenimento dello stesso.

I lipidi interagiscono con la struttura del glutine e degli amidi, consentendo l’aumento della sua estendibilità, dando vita a impasti più elastici o plastici.

La materia grassa può formare una pellicola sul panificato che ne rallenta la lievitazione rallentandola, perché sigilla l’impasto dal contatto con l’esterno, non permettendo ai microorganismi dei lieviti di nutrirsi di aria., e dal contatto con gli elementi presenti al suo interno, come l’acqua. Aggiungere troppo grasso nei prodotti, addirittura può dare il blocco totale alla lievitazione, causando anche una veloce ossidazione dello stesso, con gusto finale stantio.

È comune pensare che il grasso sia l’elemento che rende morbido il prodotto, mentre la realtà è che ad avere questo effetto sono per l’acqua, prima di tutto, e gli zuccheri. Il grasso rende il prodotto saporito al palato, lo rende morbido perché se scaldato a una temperatura di oltre 26 °C il grasso si ammorbidisce e restituisce al consumatore la sensazione di morbidezza.

Il grasso è un ottimo conservante, riesce a legare l’acqua, ma occorre “legarlo” con degli emulsionanti naturali, come la lecitina di soia, presente nel tuorlo di uovo o le farine leguminose. Spesso troviamo nei prodotti alimentari emulsionanti chimici che consentono la sofficità degli impasti; i più noti sono E472, E471, E471b che, per effetto di nuove indicazioni, sono talvolta riportati come mono e digliceridi degli acidi grassi, che sarebbe opportuno evitare, avanti con i prodotti che non li contengono, che ti indiacano che occorre “scaldare il prodotto” che ha una durata minima, questo è il mangiarsano. Ma di cosa di tratta? Gli emulsionanti sono prodotti da oli vegetali, come cocco, palma, mais, o da scarti animali derivanti dalla loro macellazione, quali unghie, corna e grasso (il consumatore Vegano o Vegetariano, infatti, evita di assumere prodotti che contengono emulsionanti).

A livello di composizione, occorre ricordare che all’interno di ogni tipo di grasso, solido o liquido, sono contenute le tre forme di gliceride, per cui si individuano acidi grassi saturi, monoinsaturi e polinsaturi. Partendo dal presupposto che tutti i grassi vengono utilizzati nel campo alimentare, si deduce che i prodotti che acquistiamo hanno al loro interno tutti e tre questi acidi grassi. Il burro, per esempio, è un grasso solido con una presenza maggiore di acidi grassi saturi nella sua composizione; viceversa, l’olio extravergine d’oliva, grasso liquido, ha nella sua composizione una maggiore presenza di acidi grassi insaturi. Nella tabella di seguito riportiamo la composizione dei grassi.

GRASSI

Lipidi tot

Saturi

Monoinsaturi

Polinsaturi

Olio di semi di soia

100

25.02

22.76

58.96

Olio di semi di mais

100

14.96

30.66

50.43

Olio di semi di girasole

100

11.24

33.37

50.22

Olio di semi di arachide

100

19.39

52.52

27.87

Margarina 100% vegetale

81

25.47

35.47

17.01

Olio di semi di palma

100

47.10

38.92

12.58

Strutto

99

42.47

43.11

11.70

Olio extravergine d’oliva

100

16.6

74.45

8.84

Burro

83.4

48.78

23.72

2.75

In particolare, gli olii contenenti grandi quantità di acidi grassi polinsaturi non vanno utilizzati per le fritture. Insomma, i famosi grassi omega-3, della cui utilità nella prevenzione delle malattie cardiovascolari tanto si parla, se sottoposti ad alte temperature diventano instabili e producono residui nocivi per il nostro corpo. Analogo discorso per gli omega-6.

Contrariamente a quanto si pensa, inoltre, non è il colesterolo introdotto con l’alimentazione ad aumentare la colesterolemia, ma il consumo di alcuni acidi grassi saturi, contenuti negli alimenti, anche se non tutti i grassi saturi agiscono nello stesso modo. Conosciamo meglio i grassi indicati.

L’impiego dei grassi in cottura, inoltre, deve rispettare in ogni momento il punto di fumo del grasso, di seguito indicato come “PF”, ovvero la temperatura massima raggiungibile prima che questo inizi a bruciare e a decomporsi creando sostanze tossiche. Il rispetto di questa temperatura è fondamentale per la qualità nutrizionale e organolettica di un alimento, oltre che per la sua conservazione. Capita spesso che al ristorante ci vengano servite delle patatine con un cattivo odore (fritto odoroso) o che i nostri abiti odorino di fritto, entrambi segni che il punto di fumo del burro, dello strutto, dell’olio di oliva o di quello di semi non è stato ben gestito.

Burro: è un alimento molto noto, impiegato specialmente nord Italia, che è la parte grassa del latte, separata dal siero e condensata. L’effetto di questo procedimento è un’emulsione, principalmente di acqua, in cui nei grassi risultano disciolti zuccheri e proteine. Per legge il burro deve avere una percentuale di grassi superiore all’80%, una parte secca non grassa del 2% e acqua non superiore al 16%; ha PF 120 °C. Il burro anidro o chiarificato è invece una crema ottenuta dal latte, dalla crema di latte o dal burro tramite un processo di estrazione di acqua e residuo secco non grasso. Si ottiene così una sostanza molto grassa, composta almeno dal 99,3% di grassi del latte, da acqua in percentuale massima dello 0,5% e dallo 0,2% vanillina, o sale.

Questo grasso ha punto di fumo di 252 °C, di molto superiore a quello del burro originario. Inoltre, è molto denso, occupa meno volume rispetto al burro tradizionale, si conserva più a lungo e non viene venduto al dettaglio. È largamente utilizzato nella produzione dolciaria ed è presente in molti tipi di cioccolato anche fondente; naturalmente, derivando dal latte vaccino il burro non è adatto a vegani e intolleranti al lattosio.

Latte: viene prodotto dai mammiferi femmine come nutrimento del proprio cucciolo. Il consumo del latte oltre l’anno di vita è un’abitudine sopravvalutata nella sua portata benefica, perché si pensa apporti proteine o calcio; tra l’altro l’uomo è l’unico mammifero che consuma latte, oltre la fase di svezzamento. Come grasso, però, il latte è un ingrediente importante perché il 4% del latte è costituito da grasso e proteine, ideale per legare glutine e amidi, ed è per questo motivo che lo si impiega in pasticceria o in molte preparazioni, sia allo stato liquido (fresco, UHT), sia in polvere, quest’ultimo che si ottiene tramite il processo di disidratazione dello stesso latte, a mezzo calore. Per le migliori lavorazioni, è ideale preferire il latte in polvere, così si utilizzano la migliore sostanza grassa e le proteine presenti senza aggiunta di acqua, il latte in polvere è il concentrato di quello che ci occorre, usando solo latte liquido invece troviamo più acqua portando l’impasto a divenire più molle.

Margarina: per definizione si ottiene dall’emulsione con acqua di uno o più grassi alimentari di origine animale o vegetale, diversa per natura dal burro o dallo strutto, deve contenere almeno l’84% di materia grassa. I grassi che si utilizzano per la produzione di questo prodotto possono anche aver subito manipolazioni che modificano in tutto o in parte i caratteri fisici o chimico-fisici del grasso in partenza. Negli anni la tecnologia alimentare ha migliorato la composizione della margarina, rendendo più gradevoli al palato e salutari i grassi utilizzati per produrla. Essendo grasso vegetale puro, ideale negli impasti composti di glutine o amidi, e se fatta con materie prime nobili (solo olii vegetali) oltre alla ottima tenuta di temperatura, è anche un ottimo conservante naturale dato che non  ossida all’interno dei cibi.

Strutto: si ottiene per estrazione a caldo (fusione) dei tessuti adiposi addominali dei maiali e viene commercializzato sotto forma di tre qualità: liscio, granuloso o a fiocchi. Viene usato spesso nella lavorazione di alcune ricette tipiche regionali, come quelle dolci del periodo carnevalesco. Dato il suo elevato contenuto di acidi grassi saturi si consiglia di limitarne l’impiego gastronomico; si utilizza per la panificazione, perché è un caratterizzante nei pani italiani come pani regionali e derivati del pane tipo taralli, e per la fritture visto che ha PF 120 °C. L’industria alimentare lo impiega specialmente per taralli o grissini, ma ormai sta quasi scomparendo dall’uso anchedal fatto della multirazziaità della popolazione europea.

Olii di oliva: è l’eccellenza della tavola mediterranea, pieno di natura e profumi. L’olio di oliva si ricava dai frutti dell’olivo, una pianta appartenente alla famiglia delle Oleacee e contiene circa il 98% di grassi. Viene commercializzato nelle seguenti tipologie:

  • Olio extravergine d’oliva (EVO): ha acidità massima dell’1%, espressa in acido oleico e PF 210 °C.
  • Olio vergine di oliva: ha acidità massima del 2%.
  • Olio d’oliva: miscela tra olio vergine d’oliva ed olio rettificato d’oliva, ha acidità non superiore all’1,5%.
  • Olio di sansa: miscela tra olio vergine di oliva e olio rettificato di sansa con acidità non superiore all’1,5%.

Visto il contenuto di acidi grassi monoinsaturi dell’olio extravergine d’oliva il suo consumo in cucina è consigliato, specie a crudo, come condimento e come grasso di conserva; inoltre, il suo elevato punto di fumo lo rende adatto alle fritture. Negli impasti quello extravergine dona un certo sapore al prodotto e ha la caratteristica di acidulo profumato erbaceo,; viene quindi utilizzato nella panificazione e nei derivati del pane. Tra gli altri oli provenienti dalle olive, invece, si può utilizzare in cucina per cibi sani e altamente digeribili, ma soprattuto per cucina per intolleranze e il consiglio è evitare il consumo di grassi non vegetali perché derivati dai latticini.

Olii di semi: si ottengono dai semi oleosi di diverse piante sopposti a forte spremitura e pressatura, oppure mediante estrazione con solventi chimici e successivamente rettificati. In pasticceria e in cucina, gli olii di semi trovano impiego grazie al loro elevato punto di fumo, ma va detto che tra i numerosi oli presenti sul mercato ve ne sono alcuni più stabili e resistenti alle alte temperature e altri che si decompongono più facilmente. Occorre quindi preferire l’impiego di olii di semi come scritti nella tabella , mentre l’industria alimentare li utilizza tutti.

La formazione di sostanze tossiche dipende dalla temperatura e dal tempo di esposizione al calore, dalla concentrazione di acidi grassi polinsaturi e dal punto di fumo dell’olio. Dai semi si ottengono:

  • Olio di semi di girasole: nell’industria alimentare trova impiego in molte produzioni per la sua caratteristica di facile reperibilità e coltivazione. Nella cucina familiare è comunemente utilizzato nelle fritture ed è da preferire a quello extravergine d’oliva in alcuni impasti dolci nei quali non si vuole aggiungere il sapore marcato delle olive, quindi sapore erbaceo, perché ancora non abituati a questo sapore così marcato, ha PF 180 °C.
  • Olio di semi di mais: ha una composizione molto simile all’olio di girasole e non è particolarmente stabile ad alte temperature; ha PF 180 °C.
  • Olio di semi di soia: molto ricco di acidi grassi polinsaturi, irrancidisce in poco tempo, motivo per cui viene spesso venduto idrogenato e quindi snaturato delle sue naturali proprietà. Va preferito quello vergine (grezzo), reperibile nei negozi specializzati, che conserva le proprie caratteristiche di pregio. Ha PF 180 °C.
  • Olio di semi di arachide: è abbastanza stabile alle alte temperature e viene per lo più utilizzato per friggere; ha PF 220 °C. confermo punto fumo L’industria alimentare lo impiega in fritture come patatine fritte, o prodotti di carnevale.
  • Olio di colza: è adatto solo alle fritture e ha PF 300 °C. ora l’industria, visto l’ottimo grado di conservabilità del prodotto lo usa in molti alimenti, chiamandolo “olio vegetale” togliendo il preconcetto sbagliato che ci hanno insegnato che l’olio di colza faceva male.
  • Olio di semi di sesamo: ha un sapore spiccato e viene utilizzato anche a crudo come condimento. È ottimo anche per friggere perché il sesamo ad elevata temperatura diventa un potente antiossidante per i cibi perché ricco di lecitina di soia . Ricco di acido linoeleico precursore degli omega 6 e vitamina E
  • Olio di canapa: si ricava dalla spremitura dei semi della canapa. Ricco di omega 3 e omega 6 L’industria alimentare lo utilizza per lo più in quei prodotti che si usa il Claim ricco di omega 3. mentre a livello domestico ancora non ha uso, in quanto cè una scarsa distrubuzione nella gdo. Ha PF 180 °C.

Altri olii: esistono olii non provenienti da olive o semi, che trovano impiego gastronomico in diversi prodotti, a livello industriale e familiare. Ne presentiamo alcuni:

  • Olio di riso: vanta le caratteristiche positive dell’involucro esterno del chicco, da cui viene estratto, e che contiene elevate concentrazioni di vitamine e sali minerali. Per ritrovare queste caratteristiche, però, occorre preferirlo vergine non raffinato. Viene impiegato dall’industria alimentare in in quei prodotti dove si punta al Claim “ricco di “ in cucina, invece, il consiglio è di usarlo a crudo .
  • Olio di palma: si ricava dal frutto della palma da olio (esiste anche l’olio di palmisto, estratto dai semi della medesima pianta); l’industria alimentare lo impiega in molte applicazioni per fritture, prodotti alimentari di bassa qualità, cioccolato A livello domestico, il suo impiego è nelle fritture Ha PF 240 °C).Grazie alla sensibililazione delle comunità, per la deforestarizzazione della amazzonia, molte aziende stanno togliendo o obbligano ditogliere l’olio di palma nella lavorazione dei cibi (evviva)
  • Olio di cocco: si ottiene dalla polpa essiccata della noce di cocco e tra gli olii vegetali è quello che ha la minore quantità di acidi grassi insaturi. L’industria alimentare lo impiega in fritture, o biscotterie per la sua caratteristica di gusto neutro quindi insapore, mentre a livello domestico si consiglia di usarlo allo stesso modo dell’industria. Ha PF 170 °C.

Si capisce, quindi, che il concetto di “grasso alimentare” non è da demonizzare, ma da comprendere nelle tanti vesti che può assumere, come si è visto. Nella cucina di tutti i giorni abbiamo la possibilità di scegliere il grasso da impiegare e di acquistare prodotti che contengono solo grassi che stimiamo e che hanno caratteristiche di pregio. Il grasso è parte fondamentale per il nostro organismo, non demonizziamolo, ovviamente i grassi da non farne un largo consumo inutile.

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Le Fibre Alimentari

La dicitura “fibra alimentare” racchiude un insieme di composti di origine vegetale, di natura fisiochimica e complessità molecolare assai diverse, caratterizzati dal fatto di essere senza alcuna distinzione, tutti resistenti all’idrolisi degli enzimi digestivi e all’assorbimento. Queste sostanze possono essere fermentate dalla flora batterica del colon, con produzione di metano, anidride carbonica, acqua e acidi grassi volatili (essenzialmente acido acetico, propionico e butirrico). La fibra alimentare è data da residui di cellule vegetali commestibili resistenti agli enzimi digestivi umani.

In parole povere, la fibra alimentare è data da tutti i residui di cellule vegetali commestibili, che risultano resistenti agli enzimi digestivi umani. Essa non aumenta l’apporto calorico nei prodotti, piuttosto lo riduce in quanto facilita la loro digestione. Le fibre alimentare stimolano la crescita di specie batteriche ad azione probiotica, favorendo così l’equilibrio della microflora intestinale.

La fibra alimentare si divide i due grandi classi: la fibra solubile e la fibra insolubile, che si trovano in proporzioni differenti negli alimenti che le contengono. Queste fibre si reperiscono in frutta (pere, fragole, more, lamponi, uvetta sultanina e arance), verdura (cavoletti di Bruxelles, carciofi, cipolle, aglio, mais, piselli, fagiolini e broccoli), legumi (lenticchie, ceci e fagioli) e cereali (crusca di avena o di altri cereali, pani integrali e semi-integrali).

La fibra solubile, fermentabile, tende a formare un composto gelatinoso all’interno del lume intestinale e questo gel che si viene a formare aumenta la viscosità del contenuto con conseguente rallentamento dello svuotamento intestinale. Inoltre, proprio per queste sue proprietà interferisce con l’assorbimento di alcuni macronutrienti (glucidi e lipidi), riducendo i livelli di colesterolo nel sangue e diminuendo il rischio di malattie cardiovascolari. Le fibre solubili allungano il tempo di digestione, riducendo il picco glicemico post prandiale; facendo abbassare il pH intestinale, inoltre, inibiscono l’attività di alcuni microorganismi, potenzialmente dannosi, favorendo invece l’attività di quelli benefici.

La fibra insolubile, non fermentabile, assorbe rilevanti quantità acqua aumentando il volume delle feci, che si fanno abbondanti e più morbide. Questo permette di stimolare la velocità di transito nel lume intestinale e, di conseguenza, di diminuire l’assorbimento dei nutrienti. Aumentando la velocità del transito intestinale, le fibre insolubili riducono anche la concentrazione di sostanze potenzialmente tossiche presenti negli alimenti e il loro contatto con la mucosa intestinale.

In parole povere, per quanto riguarda la diversificazione tra fibre solubili ed insolubili, si può dire che le fibre solubili contribuiscono a controllare glicemia e colesterolemia, mentre le fibre insolubili contribuiscono a regolare le funzioni intestinali.

Un adeguato apporto di fibra alimentare, dunque, contribuisce a mantenere in forma l’intestino e tutto l’apparato digestivo e aiuta a prevenire malattie e complicazioni a suo carico. La razione giornaliera di fibre raccomandata è di 20-35 g al giorno (con un rapporto 3:1 tra fibre insolubili e solubili, che per i bambini si attestano in 5 grammi al giorno più 1 grammo moltiplicato per l’età.

Esagerare con l’apporto di fibra alimentare può essere pericoloso poiché troppa fibra apporta un eccesso di acido fitico, una sostanza che ostacola l’assorbimento di alcuni minerali, tra cui calcio, selenio, ferro e zinco. Occorre inoltre ricordare che la parte del chicco asportata durante la raffinazione dei cereali è quella più esterna, ovvero, la più esposta alle sostanze chimiche utilizzate in agricoltura. Per questo motivo è bene accertarsi della provenienza dell’alimento integrale acquistato, per scongiurare l’introduzione di sostanze dannose per il nostro organismo.

Ma come si traduce tutto questo nel piatto? Va precisato che la fibra solubile è presente soprattutto in frutta e legumi, quella insolubile specialmente in cereali integrali e in alcuni tipi di ortaggi. Come tale, non solo è importante assumere fibre alimentari, ma anche assumerne di entrambe le classi, andandole a reperire negli alimenti che ne sono ricchi. Inoltre, le fibre vegetali rappresentano una valida opportunità nel panorama alimentare italiano, poiché possono essere aggiunte a una molteplice varietà di alimenti, per le loro caratteristiche negli impasti e per l’apporto nutrizionale che sono in grado di conferire nel prodotto finito. Si trovano in prodotti da forno lievitati e secchi, piatti pronti, prodotti fritti, salse e condimenti, preparazioni a base carne o formaggio, snack ed estrusi, gelati e glasse, ecc.

Fibra di guar o gomma di guar: si tratta della fibra di una pianta erbacea annuale di origine indiana appartenente alla famiglia delle Leguminose (Cyamopsis); viene coltivata in diverse parti del mondo, come Pakistan, Cina e Stati Uniti. Alta non più di due metri, produce frutti contenenti 5-9 semi da cui si ricava la famosa gomma di guar. La gomma di guar contiene galattomannano, in misura del 70-80%, poi acqua (10-13%), proteine (4-5%), fibre grezze (1,5-2%), grassi (0,50-0,75%) e tracce di ferro. Confermate da numerosi studi, la gomma di guar ha la capacità di regolarizzare l’indice glicemico del pasto, rallentando e riducendo l’assorbimento dei glucidi; per questo motivo rappresenta un complemento utilissimo nell’alimentazione dei diabetici. In generale, viene aggiunta a quei prodotti che hanno bisogno di addensare, come per esempio nei prodotti gluten free, nelle salse, nei gelati.

Fibra di carruba: si tratta della fibra estratta della carruba, il frutto del carrubo, un albero sempreverde originario dell’Arabia e diffuso nelle regioni mediterranee più calde (si trova anche in Sicilia, per esempio). I frutti prodotti da questa pianta sono legumi lunghi circa 15 centimetri e contenenti semi durissimi, rotondi e appaiatiti. La fibra di carruba trova impiego soprattutto nell’industria dolciaria e delle conserve alimentari; talvolta indicata in elenco ingredienti con la sigla E410, ha la capacità di assorbire acqua per 50-100 volte il suo peso.  A  differenza del guar, quest’ultimo è molto meno calorica e più ricca di fibre, vitamine (riboflavina) e minerali (calcio, potassio, rame e manganese). L’assenza di sostanze psicoattive, come la caffeina e la teobromina, rende le carrube il sostituto ideale del cioccolato per chi soffre di allergie o ipersensibilità verso tali sostanze. L’elevato contenuto in fibre la rende un alimento particolarmente saziante, capace di coniugare sapore e benessere.

Fibra di carbossimetilcellulosa (fibra di Cmc): si può trovare indicata anche come E466 ed è un derivato solubile della cellulosa (anche la carta deriva dalla cellulosa ma non è solubile!), che si scioglie velocemente a freddo dando strutture setose, lucide e molto cremose. Apporta corposità e una texture particolarmente fine al gelato, anche se certe volte risulta un po’ collante; per questa ragione, è preferibile utilizzarla con altri idrocolloidi, come guar, alginati, carruba. La CMC è solubile a freddo in acqua, origina soluzioni trasparenti ed è possibile produrla con viscosità da basse ad altissime; data la sua alta capacità addensante bastano dosi minime negli impasti. La si impiega spesso nella creazione della pasta di zucchero ed è particolarmente utilizzata nel cake design e nei prodotti senza glutine.

Fibra di hpmc (Fibra di hidrossipropilmetilcellulosa): si trova anche indicata in ingredienti come E464 e trova impiego in alcune miscele e prodotti senza glutine per migliorare le loro caratteristiche organolettiche. Tra i derivati della cellulosa, la metilcellulosa si è guadagnata un po’ di notorietà perché è tra gli ingredienti impiegati nella cucina molecolare. La proprietà più interessante della metilcellulosa è quella di dissolversi in acqua fredda e solidificare quando viene riscaldata; per questo motivo risulta ideale per strutturare perfettamente gli impasto privi di glutine.

Fibra di inulina: è la fibra dell’inulina, un oligosaccaride che viene estratto principalmente dalla radice di cicoria, ma anche dal tartufo bianco e dai tuberi di dalia. Nonostante per l’uomo risulti indigeribile, l’inulina possiede caratteristiche molto interessanti, perché ha la capacità di favorire la digestione e ridurre la produzione di gas intestinali (per questo motivo è un ingrediente tipico di molti integratori alimentari). L’aspetto più interessante di questa fibra riguarda la sua capacità di elevare la percentuale di batteri buoni (Bifidobatteri) nella flora microbica intestinale, diminuendo anche la densità di quelli nocivi. Ricca di calcio, la fibra di inulina è ideale da utilizzare per i prodotti privi di glutine e di lattosio, ha un buon retrogusto ed è un ottimo strutturante per impasti, gelati e sorbetti. L’inulina. Appartiene alla classe dei prebiotici, componenti alimentari non digeribili, che stimolano la proliferazione di numerosi batteri buoni del colon.

Fibra di bamboo: è ottenuta dalla parte fibrosa della pianta del bambù e combina la forza della cellulosa con i benefici della fibra dietetica. Poiché lega poca acqua, è particolarmente indicata per i prodotti secchi, nei dessert a base di latte, negli estrusi e nelle barrette, mentre dal punto di vista nutrizionale permette di incrementare il contenuto di fibre, riducendo grassi e calorie, senza variazioni di gusto.

Fibra di acacia: è una fibra in polvere, idrosolubile, non gelificante e insapore, che favorisce lo sviluppo naturale di una copiosa flora batterica e, se assunta in dosi adeguate, la formazione di una massa idratata non irritante. Ha la grande capacità di avere il 95% di fibra ideale per sostenere nei prodotti che la contengono il claim “ricco di fibre”. È forse la gomma naturale più antica, il suo impiego risalirebbe, infatti, agli antichi Egizi, dove era usata come legante in cosmetica e negli inchiostri. Dona stabilità alle emulsioni “olio in acqua” e non maschera i sapori perché non lascia retrogusto.

Fibra di piselli: è una fibra naturale di pisello giallo, ottenuta dalla parte interna del seme, che viene utilizzata negli impasti per aumentare l’assorbimento d’acqua riducendone il rilascio; ammorbidisce il preparato e aumenta la durabilità del prodotto finito. Viene impiegato nell’impasto di prodotti da forno, come pane e biscotti, prodotti estrusi (come fiocchi di cereali), nelle barrette di cioccolato, in salse, zuppe, creme e nella pasta fresca. Trova applicazione anche nel settore dei salumi, delle carni e nei prodotti dietetici. I piselli appartengono alla famiglia delle Fabaceae (dette anche Leguminose o Papilionacee), ma a distinguerli dagli altri legumi è la grande quantità di acqua (72-80%) e quella di proteine (circa 5,5%) e di glucidi (6,5%).

Fibra di carota: mostra un ‘elevatissima affinità per l’acqua che lega a freddo per capillarità; con lo stesso principio lega anche discrete quantità di olio risultando utile nella stabilizzazione di emulsioni. Ricca di Vitamina A, la fibra di carota è utile per lo sviluppo delle ossa e per il buon funzionamento di tutti i tessuti e per contrastare i radicali liberi. Si può usare in aggiunta in tutti quei prodotti che necessitano morbidezza, come nei plum cake, nel pane, o grandi lievitati. E’ un valore aggiunto straordinario.

Fibra di barbabietola: oltre a essere ricca di zuccheri e sali minerali, alla barbabietola si attribuiscono proprietà dietetiche e salutari. Assorbe infatti le tossine dalle cellule e ne facilita l’eliminazione; è depurativa, mineralizzante, antisettica, ricostituente, favorisce la digestione, stimola la produzione di bile, rafforza la mucosa gastrica, cura le anemie e le infezioni del sistema cerebrale, stimola la produzione dei globuli rossi, scioglie i depositi di calcio nei vasi sanguigni e ne impedisce l’indurimento, infine stimola il sistema linfatico. La polpa di barbabietola non contiene tossine e non è nociva: è una fonte di fibre sicura. Viene impiegata in quei prodotti di colore scuro, come muffin o pani integrali, ma anche nei prodotti gluten free

Fibra di arancia: regola l’assorbimento degli zuccheri, dei grassi e delle proteine, e favorisce il transito intestinale. La fibra di arancia vanta anche un elevato contenuto di bioflavonoidi, sostanze che assieme alla vitamina C, sono molto importanti soprattutto per la ricostituzione del tessuto connettivo. Per questo motivo, può favorire il rafforzamento delle ossa e dei denti, aiutare nella prevenzione della fragilità capillare e migliorare il flusso venoso.

Fibra di psillio (fibra di Plantago psyllium): si ottiene dai semi essiccati di una pianta presente nel bacino del Mediterraneo e si presenta come una polvere ricca di fibre solubili, con proprietà funzionali importanti e prebiotiche. È conosciuta e particolarmente indicata per il trattamento della stipsi e deve essere assunta con un’abbondante quantità di liquidi. Può contribuire alla riduzione del colesterolo totale e in particolare del colesterolo Ldl, sia in soggetti con colesterolemia elevata sia in soggetti con valori normali. È ideale aggiunta agli impasti per il suo effetto di assorbimento dell’acqua trova impiego soprattutto nei prodotti gluten free, che hanno apporto fdi fibre naturali, ma soprattutto possiamo inserirla in tutti gli alimenti, vista la capacità di assorbire acqua, quindi rende l’impasto più soffice a lungo.

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Gli Zuccheri

La prima forma di zucchero di cui si ha notizia è la canna da zucchero, che rimase per molti secoli l’unico edulcorante alternativo al miele. Si ritiene che sia stato portato dagli abitanti delle isole polinesiane in Cina e in India; qui i Persiani di Dario I trovarono, nel 510 a.C., coltivazioni di un vegetale da cui si ricavava uno sciroppo denso e dolcissimo. Fatto asciugare in larghe foglie produceva cristalli che duravano a lungo e dalle spiccate proprietà energetiche. I Persiani portarono le piante con loro e ne estesero la coltivazione al Medio Oriente. Nel 325 a.C. Alessandro Magno portò la notizia che nei territori orientali si trovava un “miele che non aveva bisogno di api”. Furono però gli Arabi, presso cui era già in uso nel VI secolo d.C., che ne estesero la coltivazione nei loro territori. Genovesi e Veneziani, nel X secolo, presero a importare modeste quantità di ciò che veniva chiamato “sale arabo” e che le Crociate resero ancora più diffuso. Lo zucchero restò per molto tempo una spezia rara e preziosa, venduta dagli speziali e dai farmacisti a carissimo prezzo, per lo più a scopo di medicina in uso per sciroppi e impacchi.

Solo i ricchi potevano permettersi di usarlo come dolcificante anche se il suo più antico surrogato, il miele, non era certo prodotto in quantità tali da poter comparire sulla tavola della popolazione come un dolcificante di tutti i giorni. Con la scoperta dell’America, gli Spagnoli introdussero la coltivazione della canna da zucchero a Cuba e nel Messico, i Portoghesi in Brasile, Inglesi e francesi nelle Antille, cioè in quei territori dell’America Centrale e Meridionale che ancora oggi ne sono ancora tra i maggiori produttori. Poiché lo zucchero delle Americhe era migliore e meno costoso, le coltivazioni spagnole e italiane scomparirono, insieme ai traffici con i territori arabi. Nacque un fiorente traffico di importazione che rese il prodotto zucchero, per quanto di lusso, più comune. Questo diede una spinta notevole all’arte culinaria, permettendo la nascita della pasticceria europea come arte autonoma, anche grazie al connubio dello zucchero con cacao, latte o caffè.

Sulla spinta della necessità, gli Europei si adoperano per trovare un’alternativa a questi onerosi commerci. Nel 1747 il chimico tedesco Andreas Sigismund Marggraf riuscì a dimostrare la presenza di saccarosio dalle barbabietole e alcuni decenni dopo il suo allievo Franz Karl Achard ideò un processo industriale idoneo alla sua estrazione: è a lui che si deve il primo zuccherificio industriale sorto in Slesia nel 1802. Per espressa volontà di Napoleone, la produzione di zucchero da barbabietola fu incoraggiata in tutti i territori sotto il suo controllo e furono aperti altri stabilimenti in Francia, grazie anche ai perfezionamenti che l’imprenditore francese Benjamin Delessert apportò al procedimento di estrazione. Dopo il Congresso di Vienna, lo zucchero di canna tornò a circolare, ma l’espansione di quello da barbabietola fu irreversibile. Il costo inferiore lo rese via via disponibile a fasce più ampie di popolazione, cambiando considerevolmente le abitudini alimentari dell’Europa. In Italia, negli anni ´80 del secolo scorso, per contrastare la concorrenza crescente dei dolcificanti alternativi, l’industria zuccheriera diede luogo a una massiccia campagna pubblicitaria in cui si collegava l’utilizzo dello zucchero allo sviluppo cerebrale, ma senza alcun fondamento scientifico.

Fare la conoscenza di questo ingrediente è fondamentale per poterlo utilizzare al meglio, anche in considerazione del fatto che oggi le tipologie di zucchero presenti in commercio sono molti e fondamentali alla preparazione dei nostri impasti.

La loro funzione negli impasti, per esempio, è quella di addolcire un croissant o ammorbidire un panificato. La sostanza zuccherina all’interno di un lievitato, infatti, non apporta solo dolcezza ma consente una migliore lievitazione e conservazione del prodotto stesso. È dallo zucchero che si ricavano il lievito compresso (lievito di birra fresco) e l’alcool puro. Impiegare lo zucchero in cucina permette di: Caramellizare, dolcificare, elasticizzare, ammorbidire, infatti lo zucchero oltre adessere un conservante naturale, è anche un ammorbidente, perché, viene trasformato dalle lievitazioni e dalle cotture, portandolo o in glicerolo o in invertosi, quindi non evaporando mantiene l’umidità del prodotto

Per fare un uso opportuno dello zucchero, è fondamentale che non si esageri nel suo uso, togliamo l’idea che buono “è dolce” sentiamo altri sapori, ne abbiamo cinque nel palato.

Nella logica del mangiarsano lo zucchero si inserisce come un prodotto sano, se usato nella cucina solo di zuccheri naturali

Quando si parla di zuccheri, infatti, è opportuno fare una distinzione tra zuccheri naturali e zuccheri artificiali o sintetici. I primi sono estratti da piante, frutti, sostanze presenti in natura e, come tali, ne riportano anche in gran parte le primarie caratteristiche. Gli zuccheri artificiali, invece, sono stati creati dall’uomo per esigenze specifiche, per esempio, per ottenere uno zucchero dal maggior potere dolcificante ma un ridotto potere calorico, o perché si desiderava avere a disposizione uno zucchero meno costoso e facilmente ricreabile. Il consiglio è di preferire zucchero semolato, zucchero di canna, destrosio, fruttosio, glucosio, etc, come scritto in questa tabella:

Questi sono i principali zuccheri naturali utilizzati nella lavorazione alimentare. Capiamo le caratteristiche di ciascuno e quando è bene utilizzarli.

Saccarosio (zucchero semolato): zucchero di barbabietola o di canna da zucchero. Oltre a essere utilizzato come ingrediente per alimenti prodotti a livello familiare, industrialmente o nel laboratorio artigiano, lo zucchero costituisce la materia prima da cui, per fermentazione si producono etanolo, butanolo, glicerina, acido citrico e acido levulinico. La melassa recuperata durante la lavorazione trova moltissimi impieghi: quella di canna è utilizzata ad esempio nella produzione di etanolo, rum e sciroppi da tavola; la melassa di barbabietola come dolcificante per alimenti, nella produzione del lievito di birra. Ottimo ingrediente per tutti gli impasti, ha la capacità di essere un nutriente naturale per il lievito madre o per la classica biga.

Glucosio: sotto forma di sciroppo a varie concentrazioni, questo zucchero è ricavato da amidi, in particolare da quello di mais. Si presenta in polvere micronizzato o liquido, ideale per gli impasti; è un anti-cristallizzante, ammorbidente naturale, con potere dolcificante molto inferiore al saccarosio. Ideale per gli impasti di croissant, brioche e prodotti da prima colazione.

Destrosio: glucosio commerciale ricavato da amidi di cereali, è uno zucchero invertito puro, con cristalli molto fini, che si presenta in polvere. È un ammorbidente naturale; zuccheri invertiti come questo, non vengono mai usati da soli, ma sempre con una percentuale di saccarosio. Meno dolce del saccarosio, viene usato principalmente per la preparazione di impasti con basso contenuto di zucchero, tipo pane soffice, pancarrè e pane speciale. Usato anche in pasticceria, è ideale per semifreddi, gelati e snack salati.

Fruttosio: o “levulosio”, viene estratto dalla frutta (da cui il nome). Ha un alto potere dolcificante ed è ideale per pasticceria e panificazione salutistica, nei prodotti dietetici. Il suo impiego ha una azione di stabilizzazione dell’impasto e di ammorbidente.

Lattosio: si tratta di un disaccaride del latte, formato da glucosio e galattosio. È uno zucchero con un basso potere dolcificante e rappresenta, in percentuale del 98%, tutti gli zuccheri presenti nel latte. Il suo impiego è suggerito negli impasti di frolla, frolla montata e bignè. Non idoneo al consumo di persone intolleranti al lattosio.

Maltosio: o “zucchero di malto”, sotto forma di sciroppo a varie concentrazioni è uno zucchero composto da due unità di glucosio. Ha un basso potere dolcificante, con un effetto di anti-cristalizzazione; trova impiego in basse percentuali per impasti che si desidera siano soffici, con poca dolcezza. È un antiossidante naturale, valido per la lunga conservazione delle frolle.

Sorbitolo: detto anche “glucitolo”, si ottiene per idrogenazione del glucosio e proviene da frutta, alghe, bacche, sorbe (da qui il nome). Si presenta in elenco ingredienti come E420 e viene usato per il suo potere dolcificante, stabilizzante e di agente lievitante. È ideale per torte, pan di spagna, bignè e lievitati di largo consumo.

Eritritolo: indicato anche come E968, si ottiene tramite fermentazione microbica con lieviti, è un polialcool naturalmente presente nella frutta e nei cibi fermentati. È utilizzato con successo come dolcificante naturale, in quanto ha zero calorie e un ottimo sapore, privo di retrogusti. A livello industriale è ottenuto da substrati zuccherini (amido, glucosio, saccarosio, ecc.), tramite fermentazione microbica a opera di lieviti osmofili selezionati. Ideale per gelati (li rende lucidi e brillanti in frigorifero) e per sorbetti, viene spesso usato nelle miscele per gelateria e sorbetteria.

Stevia: è il succo estratto da una pianta perenne poco resistente al gelo, nei climi più freddi, coltivata solitamente come semi-perenne. Secondo alcuni studi lo stevioside è tra 110 e 270 volte più dolce del saccarosio. Considerando il contenuto medio degli estratti, risulterebbe che una foglia fresca, o un quarto di cucchiaino di foglie essiccate, corrispondono a un cucchiaio di zucchero (durante l’essiccazione il peso della pianta fresca si riduce dell’80%). A luglio 2012 è stata autorizzata la produzione e la vendita di stevia nell’Unione Europea come dolcificante alimentare. La Direzione generale Salute e tutela dei consumatori della Commissione Europea ha approvato il regolamento degli estratti di Stevia (glicosidi steviolici) da usare come dolcificante a livello europeo. Quando si usa in cosa? L’uso ancora è poco inserito in Europa, ma modificando le ricette, possiamo usarlo in tutte le applicazioni.

Succo Di Mela: è un succo ottenuto dalla spremitura della mela e dal punto di vista nutrizionale è ricco di flavonoidi, pectina, acido citrico, acido malico, acqua, proteine, zuccheri semplici, come il fruttosio, sali minerali, tra cui il boro (essenziale per la salute delle ossa) e vitamine A, C. Ottimo come dolcificante, viene usato spesso nei prodotti vegani o in quelli di origine biologica.

Xilitolo: chiamato anche “zucchero del legno”, viene estratto dalla Betulla, ma anche dai frutti comuni come lamponi e fragole, e dal grano. È identificato anche come E967, ha un potere dolcificante simile al saccarosio ma con il 40% di calorie in meno; trova quindi spesso impiego per alimenti dolciari dietetici.

Monellina: ottenuta attraverso l’estrazione di proteina da un arbusto, è percepita di sapore dolce dall’uomo e da alcuni primati, ma non dagli altri mammiferi. È stato riportato che è 1.500 – 2.000 volte più dolce di una soluzione al 7% di saccarosio; viene usata come dolcificante in alcuni cibi e bevande, poiché è prontamente solubile in acqua per le sue proprietà idrofile. Però ha delle limitazioni perché si denatura alle alte temperature risultando quindi inadatta per i cibi elaborati.

Isomalto: è una sostanza cristallina inodore, prodotta con due zuccheri, come mannitolo e glucosio, e ha un potere dolcificante simile al saccarosio. Ha la particolarità di cristallizzare lentamente ed è quindi molto valido per le sculture di zucchero e per la pasta di mandorle.

Miele: composto da zuccheri diversi, proviene dal nettare e dalla melata. È il più antico dolcificante ed è impiegato da migliaia di anni. È composto da zuccheri diversi, prodotti dalle api, e ha la qualità di un gusto inconfondibile; è valido per la pasticceria di alta qualità, ha un potere ammorbidente naturale, ma se dosato in eccesso tende ad appesantire in modo irreversibile gli impasti lievitato. Quando si usa in cosa? Si usa in tutte quelle ricette che hanno una tradizione regionale, o si usa in quelle nuove ricette chesi vuole dare come claim un prodotto di natura.

Invertito: composto mediante l’inverterasi del fruttosio e glucosio, ha un potere dolcificante superiore al saccarosio. Ha la qualità di essere un ammorbidente per eccellenza, semplice nell’uso, ottimale per grandi lievitati, pasta di mandorle, pasticceria al cocco e frolle. È un nutriente per eccellenza dei lieviti, del lievito madre per esempio.

Sciroppo d’acero: si estrae dalla linfa di due tipologie di aceri. La sua raccolta dura 4-8 settimane all’anno e viene svolta ancora a mano. Contiene sali minerali, in particolare potassio, calcio, magnesio, manganese e ferro, e può vantare proprietà depurative e diuretiche. In particolare, il suo potere dolcificante è superiore a quello dello zucchero a fronte di un ridotto potere calorico. Quando si usa in cosa? Nella alimentazione vegana, nel crudismo, e in tutti quei prodotti che vogliamo evitare il saccarosio

Si definiscono zuccheri artificiali o sintetici, invece, quelli non presenti in natura, impiegati per lo più dall’industria alimentare. Capiamo le caratteristiche di ciascuno e come trovano impiego.

Maltitolo: derivato dal maltosio per idrogenazione, è un ottimo dolcificante e si presenta in modo liquido, ideale per impasti di torte, biscotteria, paste di mandorla e dona loro una lunga conservazione. Un errato dosaggio può causare al cliente effetti gastrici indesiderati, come tutti gli alcool prodotti dagli zuccheri.

Isomalto: disaccaride, sostanza bianca e cristallina, è inodore, e viene prodotto con due zuccheri, come mannitolo e glucosio. Ha un potere dolcificante simile al saccarosio e cristallizza lentamente; per questo motivo è ideale per realizzare sculture di zucchero o per creare la pasta di mandorle.

Acesulfame K: è un edulcorante artificiale, chiamato anche “acesulfame potassico”. È conosciuto anche come E950 e, a differenza dell’aspartame, è resistente al calore anche in ambienti moderatamente acidi o basici, aspetto che lo rende particolarmente adatto per prodotti di pasticceria o a lunga conservazione, oltre che nelle bibite gassate.

Aspartame: è un edulcorante, dolcificante ed esaltatore di sapidità artificiale. Pur avendo la stessa quantità di calorie del saccarosio, il suo potere dolcificante è circa 200 volte maggiore, motivo per cui ne sono necessarie piccole quantità per dolcificare cibi e bevande.

Saccarina: ha un potere dolcificante pari a circa 300 volte superiore a quello del saccarosio, ma presenta un retrogusto amaro o metallico, generalmente considerato sgradevole, specialmente ad alte concentrazioni. Tale effetto tuttavia risulta più o meno marcato a seconda della sensibilità personale del consumatore. Quando si usa in cosa? E’ moda, di usarlo come dolcificante nel caffè perché l’idea è quella della dieta. Ma non è così.

Sucralosio: noto negli Stati Uniti con il nome commerciale “Splenda”, è un dolcificante artificiale. Nell’Unione Europea è conosciuto anche col nome di E955. È 600 volte più dolce del saccarosio, cioè all’incirca due volte più dolce della saccarina e quattro volte più dolce dell’aspartame. Quando si usa in cosa?

Lo troviamo in caramelle, in dolcificanti, o in prodotti da forno a basso costo.

Gli zuccheri. Abbiamo sempre pensato che lo zucchero fa ingrassare, o fa male per tante nostre patologie. Se usati in modo appropriato sono fondamento della nostra alimentazione. L’errore che si commette è quello di pensare fin da bambini, che un prodotto con lo zucchero è più buono.

Questo lo ha imposto la grande industria, la pubblicità, facendo scomparire il vero sapore del prodotto finale.

Nella sana alimentazione gli zuccheri, movimentano le nostre cellule, e gli zuccheri sono già presenti in natura, come la frutta e la verdura, non occorre, quando cuciniamo aggiungere più zuccheri in questi alimenti per farli sembrare più buoni.

Una buon equilibrio ogni giorno nelle ricette, possiamo, oltre mangiarsano tutti i giorni, riscoprire i sapori di tanti prodotti.

E’ inutile, a questo punto, fare una ricetta “ricca” di tanti ingredienti, poi come sapore “spicca” solo il dolce forte dello zucchero.

Ragionare, calibrare, nutrirsi prevenire, questi le parole d’ordine nell’uso degli zuccheri.

Ragionare su cosa vogliamo ottenere nell’uso dello zucchero in modo eccessivo o cosa vogliamo ottenere nel prodotto finito

Calibrare le ricette, in modo tale da fare armonizzare con l’uso dello zucchero gli altri sapori

Nutrirsi tutti i giorni di zuccheri naturali, è fondamento per il nostro organismo

Prevenire con una sana alimentazione, e lo è anche lo zucchero, future e sicure malattie mangiando cibo spazzatura.

Non fare troppo uso di bibite o di quei alimenti dove vengono riportati zuccheri di provenienza chimica o di sintesi, forse la parola cancerogeno è più diretta a farti capire che fanno male con un uso improprio, e la parola “senza zucchero” è solo una presa in giro, o che poco zucchero o zuccheri alternativi non esistono, se solo quelli naturali.

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Le Cotture

by Francesco Favorito

La cottura è un procedimento che consiste nell’esporre il cibo a fonti di calore per trasformarlo da crudo a cotto. Questo trattamento è una diretta conseguenza della scoperta del fuoco e viene fatta risalire al paleolitico inferiore: in insediamenti di Homo erectus di Ciu Ku Tien in Cina sono stati trovati focolari di 400 000 anni fa. Secondo altri la capacità di controllare prima e di produrre il fuoco poi, andrebbero retrodatate fino a circa un milione di anni fa (ritrovamenti in Sudafrica).La cottura risponde a diverse esigenze: altera la consistenza e il sapore dei cibi rendendoli più digeribili elimina batteri, virus e animali (per esempio le uova dei parassiti Taenia solium e Taenia saginata) presenti nel cibo, trasforma alcune sostanze tossiche rendendo commestibili cibi altrimenti nocivi

A determinate temperature, ph e tempi di cottura, ha anche l’effetto di ridurre l’assorbimento di alcune vitamine del cibo, riducendone la biodisponibilità e il valore nutrizionale

Effetti della cottura sugli alimenti:

La cottura è fondamentale per il cibo, l’importante non venga effettuata “male” carbonizzando, velocizzando, o fare cotture con materiali nocivi o vecchi materiali, affidarsi sempre alla tecnologia, non usare sistemi antichi, o materiali obsoleti, questo comporta la migliore conservazione dei prodotti, il migliore sapore, l’effettuazione di una maggiore riuscita della ricetta e presentarla ai propri ospiti o clienti.

Tutti i sistemi di cottura provocano trasformazioni negli alimenti a cui vengono applicati. Il calore modifica fisicamente e chimicamente la struttura del cibo. La nostra attenzione deve rivolgersi ad alcuni elementi presenti nella maggior parte dei cibi.

Glucidi (zuccheri più o meno semplici), proteine, grassi, fibra vegetale o animale, sali minerali, amidi,vitamine e soprattutto acqua, sono gli elementi da cui sono costituiti quasi tutti i prodotti alimentari che utilizziamo in cucina. Quando si cuoce un alimento, si verificano delle trasformazioni di questi elementi dovute all’azione del calore che possono creare effetti diversi in funzione del metodo di cottura e della naturale composizione elementi contenuti nel cibo.

Gli ortaggi sono maggiormente costituiti da acqua, fibra vegetale, amidi, cioè zuccheri semplici, sali minerali e vitamine. Le carni e i pesci invece contengono principalmente acqua, proteine, grassi e fibre muscolari. Nella composizione delle uova troviamo quasi esclusivamente proteine e acqua (nell’albume) e nel tuorlo è presente anche una certa quantità di grassi e lecitina.

La trasmissione del calore agli alimenti per eseguire una cottura può avvenire in diversi modi;

Frittura: una delle cotture più antiche al mondo, fatta con immersione, o esposizione ad un grasso che può variare di temperatura , essenziale non superare mai questi “punti fumo” ideale per una maggiore conservazione, e salubrità dei cibi, come : 130° burro o strutto, 180° olio di semi girasole, soia, mais, 210° olio extra vergine di oliva, 220°olio di arachidi, 300° olio di colza.

Conduzione: cioè quando si ha il contatto diretto con la fonte di calore o meglio: cottura su piastra, in padella o altro recipiente con pochissimo grasso e senza liquido alcuno.

Convezione: cioè quando il calore viene trasportato dalla fonte di calore all’alimento per mezzo di un fluido. L’aria, il vapore, l’acqua, l’olio, sono dei fluidi di diversa densità che utilizziamo per trasferire il calore agli alimenti nelle cotture al forno, a vapore, per ebollizione o in frittura. Nelle cotture effettuate nel forno l’aria può essere ferma, vedi esempio del forno statico, oppure in movimento tipo “rotor” , classico del forno a convezione. Se spinto da una o più ventole, il fluido aria di un forno a convezione risulta essere più denso ed efficace rispetto all’aria di un forno statico che si muove in modo naturale. Il vapore che contiene molecole d’acqua in sospensione è più denso dell’aria, l’acqua è più densa del vapore e l’olio è più denso dell’acqua.

Tanto più è denso il fluido e tanto più efficace è la trasmissione del calore. Svolgiamo una prova: è  possibile mettere una mano in un forno a 250 gradi e tenercela per qualche secondo, mentre è impossibile mettere una mano nell’acqua che bolle a soli 100 gradi: il fluido più denso trasmette meglio il calore. per irraggiamento, cioè quando il calore viene trasmesso all’alimento per mezzo di raggi infrarossi. Il sole riscalda la terra e il suo calore ci giunge attraversando lo spazio, dove non c’è aria, cioè nessun fluido. Sono i raggi infrarossi che trasportano il calore. Quando ci sediamo a 5 metri di distanza dal fuoco di un camino percepiamo ugualmente una sensazione di calore, ma se fra noi e il fuoco mettiamo uno schermo opaco – un qualsiasi ostacolo che non ci permette di vedere il fuoco – interrompiamo il flusso di raggi infrarossi e la percezione del calore diminuisce. Nella cottura allo spiedo o sotto il grill o nella salamandra, il cibo cuoce perché  sottoposto all’azione dei raggi infrarossi. Anche nel forno a microonde c’è un irraggiamento, ma di tipo diverso: sono onde elettromagnetiche di una frequenza tale da mettere in agitazione continua le molecole d’acqua, zucchero o grasso contenute nell’alimento, che si scalda dall’interno per attrito molecolare. Praticamente le molecole sottoposte all’azione delle microonde cambiano il loro orientamento milioni di volte al secondo e si scaldano più o meno allo stesso modo di quando ci scaldiamo le mani strofinandole velocemente una contro l’altra.

Le cotture si dividono in diverse tipologie. Esistono cotture per concentrazione, per espansione e miste, cioè in cui vengono applicate sia la concentrazione che l’espansione. Vediamo cosa significano questi termini.

Si intendono cotture per concentrazione quando non utilizziamo liquidi e una parte dell’acqua contenuta nell’alimento evapora, concentrando il gusto del cibo. Queste cotture generalmente cotture effettuate a temperature comprese tra 120 e 250°C.
La concentrazione comporta anche altre trasformazioni che sviluppano sapori interessanti in buona parte dei cibi. La trasformazione più comune ed evidente è la parziale caramellizzazione degli zuccheri, conosciuta anche come Reazione di Maillard. Se avete provato a cuocere del saccarosio – il comune zucchero bianco – fino a farlo diventare color nocciola, avete realizzato una caramellizzazione. Avete cioè modificato, grazie all’azione del calore, il colore e il sapore dello zucchero. Questo effetto si ottiene a temperature comprese tra 140 e 165°C.

Quando cuociamo un arrosto, soffriggiamo o rosoliamo della cipolla o altro fino a far prendere un colore dorato più o meno carico, quando cuociamo il pane o una torta fino a formare una crosta dorata sulla superficie, realizziamo una Reazione di Maillard. I sapori si modificano e diventano più gradevoli e questa è una cosa molto utile in cucina. La cipolla rosolata, la doratura delle patate al forno, la crosticina dorata di un arrosto costituiscono un concentrato di gusto, generalmente gradevole, che rende più piacevole al palato il tutto. Insieme alla reazione di Maillard nelle cotture per concentrazione c’è anche una parziale riduzione (per evaporazione) dell’acqua contenuta nel cibo. I sapori quindi si concentrano e contemporaneamente si ottiene anche una trasformazione delle proteine e dei grassi, che liberano le essenze aromatiche dell’alimento (specialmente carni e pesci) emanando profumo e modificando il sapore.

Riassumendo, applichiamo una concentrazione quando cuociamo a temperature al di sopra dei 140° e, di conseguenza, in assenza di acqua che non permetterebbe, se presente, di superare i 100°C sulla superficie degli alimenti. Sono perciò cotture per concentrazione quelle alla griglia, al forno, in frittura, alla piastra, rosolando in una padella, Una tra le più importanti innovazioni in campo culinario è la cottura a bassa temperatura di alimenti messi sottovuoto. In cucina la temperatura è una delle componenti più importanti nella preparazione di un piatto: può trasformare i cibi in qualcosa di squisito, o altrimenti, d’immangiabile.  Da sempre è tra gli elementi più difficile da controllare con precisione, soprattutto al di sotto dei 100°C. Cuocere a bassa temperatura è più semplice di quanto si possa pensare. Basta mettere l’alimento in un apposito sacchetto, creare il sottovuoto sigillandolo e immergerlo in un bagno di acqua calda o in un forno a vapore con impostata la temperatura desiderata (di regola quella che si vuole ottenere al cuore dell’alimento).

Nelle cotture per espansione il cibo è a contatto con un liquido, che in modo più o meno marcato estrae o scambia con esso aromi e sapori. La lessatura, la cottura a vapore, la stufatura si basano su questo principio. L’acqua è sempre presente in queste cotture e ciò impedisce di superare la temperatura di 100°C, per cui non può esserci nessuna caramellizzazione. Si ha invece lo scioglimento di varie sostanze che passano dall’alimento al liquido di cottura, mentre altre sostanze o aromi eventualmente presenti nel liquido insaporiscono l’alimento.

Quando mettiamo un pezzo di carne a bollire nell’acqua, al termine della cottura abbiamo ottenuto anche un brodo. Se nell’acqua mettiamo anche delle erbe aromatiche o delle spezie, sia la carne che il brodo risulteranno migliori. Inoltre alcune parti dure della carne dopo una cottura prolungata in acqua, si trasformano in morbida e profumata gelatina. Il collagene che è presente nei tendini, nel tessuto connettivo, nelle cartilagini, con una cottura prolungata in acqua a temperatura di almeno 90-92°C si idrolizza trasformandosi parzialmente in gelatina.

In molti casi si applica prima una cottura per concentrazione seguita da una per espansione: abbiamo allora una cottura mista. Nella prima fase di concentrazione generalmente si fa rosolare l’alimento a calore forte per ottenere lo sviluppo dei sapori gradevoli dati dalla caramellizzazione di amidi e proteine. Nella fase successiva per espansione, si aggiungono liquidi che hanno lo scopo di sciogliere e diffondere nel tutto le parti rosolate nonché di intenerire l’alimento.

Un esempio classico di questa cottura è il brasato, dove un pezzo di carne (di solito per un brasato si usano pezzi non teneri e abbastanza ricchi di tessuto connettivo) viene dapprima infarinato e rosolato in padella, poi cotto in forno in un recipiente chiuso insieme a del vino e verdure aromatiche.

Nella prima fase la temperatura è piuttosto alta: 160/180°C. La rosolatura della superficie esterna infarinata crea una crosta colorita e croccante ricca di gusto, ma l’interno è ancora praticamente crudo.
Nel passaggio successivo con laggiunta del liquido la temperatura scende intorno ai 100°C. L’umidità ammorbidisce la crosta e ne diffonde nel fondo di cottura gli aromi. Questa parte di cottura va avanti per oltre un’ora, spesso anche per due o tre, secondo le dimensioni del pezzo. Le parti dure si inteneriscono e il risultato è una carne tenerissima, con un sugo di accompagnamento molto gustoso.

Riassumendo, le cotture per concentrazione sono quelle in cui non si aggiungono liquidi e quelli eventualmente presenti nell’alimento vengono fatti evaporare o mantenuti all’interno dell’alimento stesso:
Friggere: totale immersione del cibo in olio o grasso a temperature comprese fra 150° e 210°C

Arrostire: per carni pesci o verdure in forno o allo spiedo a temperature tra 140° e 220°C Grigliare: carni, pesci, verdure, formaggi su braci di legna o carbone, oppure con altre griglie o piastre tra 160° e 250°C
Cuocere in forno: pane, pizze, torte a temperature tra 160° e 230°C (350/400°C per la pizza in forno a legna)
Rosolare: in padella o casseruola con poco grasso, tra 140° e 230°C, saltando o mescolando abbastanza frequentemente per non bruciare. L’effetto è una coloritura veloce e bruna, anche senza raggiungere la totale cottura, specialmente per i fondi aromatici.
Soffriggere: in padella o casseruola con poco grasso, tra 120° e 145°C, saltando o mescolando, ma non in continuazione. Per i fondi aromatici serve ad ottenere una coloritura dorata, l’ammorbidimento e la completa cottura.
Saltare: in padella con poco grasso a varie temperature secondo la natura dellalimento. I liquidi presenti evaporano e gli effetti possono essere simili a quelli di rosolare o soffriggere.

Le cotture per espansione al contrario, sono quelle in cui è presente una quantità più o meno grande di acqua, e affinchè  questa è presente non si riescono a superare i 100°C (115/120°C nella pentola a pressione)

Bollire: cibo immerso in acqua o brodo a 100°C, ma anche le varianti sobbollire e affogare dove la temperatura è più bassa: da 60° a 90° circa secondo il tipo di alimento. Principi nutritivi aromi e sapori passano in parte nel liquido di cottura, gli alimenti delicati tendono a spappolarsi, alcune verdure perdono colore.

Sbollentare/sbianchire: cottura parziale che ha lo scopo di intenerire prima di una successiva cottura, oppure di eliminare impurità.

Sbollentare :  si fa immergendo in acqua già bollente;

Sbianchire si fa iniziando dall’acqua fredda. Il rapporto acqua/cibo deve essere di 5/1.
A vapore: simile a bollire, ma con pochissima dispersione di principi nutritivi, praticamente nessuno spappolamento e nessuna alterazione dei colori. Se fatta a regola d’arte in un forno a vapore possiamo quasi classificarla tra quelle per concentrazione.

Tra le cotture miste oltre a brasare che abbiamo già visto più sopra, possiamo aggiungere anche stufare. Si fa in casseruola con coperchio che ha lo scopo di mantenere all’interno del recipiente quanto più vapore è possibile. Il liquido può essere già presente nell’alimento stesso (acqua di vegetazione degli ortaggi), oppure aggiunto in piccole quantità se occorre. Si usa un condimento grasso (burro o olio) e il sale – che estrae acqua dagli alimenti – viene messo già dall’inizio proprio per favorire la fuoriuscita del liquido. É una cottura mista perchè all’inizio si ha una espansione, ma poi il liquido alla fine è quasi del tutto evaporato e quindi possiamo parlare anche di concentrazione.

Ottime le cotture per poi conservare in sottovuoto, vediamo i benefici a questa innovativa tecnica:

Nella ristorazione la tecnica del sottovuoto viene da tempo applicata alla cottura degli alimenti, ma solo negli ultimi anni si è notevolmente evoluta e diffusa , diventando addirittura per alcune catene di ristoranti “il sistema” di cottura per eccellenza.

Vi sono centri di preparazione che cucinano e confezionano vivande sottovuoto e le distribuiscono alle cucine di vari ristoranti, dove i piatti vengono rapidamente rigenerati  e serviti.

Grazie alla divulgazione mirata da parte dei docenti specializzati che,sempre supportati dalle aziende, offrono la possibilità agli addetti ai lavori di  toccare con mano gli innumerevoli vantaggi derivanti dall’applicazione del sistema sottovuoto,diviene molto più semplice aprire la propria mente ed aumentare il bagaglio tecnico al fine di cambiare radicalmente  o parzialmente in meglio metodologie stressanti e superate applicate alle produzione ed alla gestione economica.

Il sottovuoto si distingue in due tipologie :

-il sottovuoto spinto che consente di poter effettuare in primis le cotture ed in seguito le conservazioni

– il sottovuoto in atmosfera modificata che consente la conservazione prolungata grazie all’utilizzo di miscele di gas inerti composti rispettando la composizione chimica ed organolettica di ogni alimento

La domanda più ricorrente riguarda la definizione del sottovuoto, ovvero, se questa tecnica sia da definire appunto un sistema di cottura evoluto o un metodo di conservazione, ma la verità è che si tratta di una tecnica di imballaggio.

Il vuoto si ottiene grazie ad una condizione fisica generata attraverso due fasi fondamentali che sono:

-aspirazione della’aria attraverso una potente pompa creando una pressione dell’aria nettamente inferiore a quella atmosferica

-sigillatura generata da una barra saldante in grado di non permettere all’aria di formarsi all’interno dell’involucro

La macchina utilizzata nella ristorazione è quella a campana, molto efficace e precisa, che negli ultimi anni,grazie alla ricerca di alcune aziende produttrici,hanno raggiunto livelli di affidabilità e precisione eccellenti.

Per quanto riguarda la conservazione, i vantaggi sono facilmente intuibili, innanzitutto si estende la conservabilità  dei prodotti meglio conosciuta come shelf life, poiché l’assenza di ossigeno rallenta drasticamente la proliferazione batterica e i fenomeni di ossidazione, che provocano alterazioni dei caratteri organolettici e nutrizionali dell’alimento; il sistema risulta pertanto molto più rispettoso dei parametri igienici rispetto alle metodologie applicate utilizzando i sistemi tradizionali ed impedisce inoltre la contaminazione microbica.

Non esistono inoltre più scarti generati dall’ essiccamento superficiale di carni, pesci, impasti ed altre tipologie di preparazione.

La cottura sottovuoto può essere effettuata utilizzando i forni a vapore o per immersione in acqua  riscaldata e stabilizzata alla giusta temperatura.

Accorgimenti mirati alla corretta attivazione del ciclo di produzione del sottovuoto

Per poter riuscire ad ottenere i risultati che il ciclo del sottovuoto offre,  è bene lavorare rispettando con particolare attenzione le principali norme igieniche, poiché anche in assenza di ossigeno si possono sviluppare alcuni microrganismi molto pericolosi:

– è consigliabile utilizzare materie prime di eccellente qualità: il sottovuoto esalta infatti al massimo i pregi e i difetti di ciascun alimento

-controllare la temperatura di arrivo delle merci verificando anche l’idoneità e la pulizia del mezzo di trasporto

-stabilizzare immediatamente le temperature degli alimenti stoccandole nelle apposite celle o armadi frigoriferi

-lavorare,seguendo un corretto schema,le materie prime facilmente deperibili come carne e pesce,nel raggio di pochi minuti dalla ricezione delle stesse rispettando i parametri imposti dal protocollo haccp

-effettuare le lavorazioni in camera bianca ovvero, in ambienti sterilizzati con temperature possibilmente oscillanti tra i 2°C gli 8°C dove gli operatori  e le attrezzature sono sanificati, muniti dei corretti strumenti indicati appunto dai protocolli d’igiene

-procedere al condizionamento in sottovuoto spinto nei sacchetti da cottura per gli alimenti destinati a tale processo

-gli ortaggi condizionati in sottovuoto devono essere avviati alla cottura nel più breve tempo possibile poiché, se si trascura questa dinamica, i gas emanati da questi prodotti formano un cuscinetto che non consentirebbe all’involucro di aderire perfettamente vanificando la giusta cottura

– procedere al condizionamento negli appositi sacchetti per la conservazione o nelle apposite vaschette per gli alimenti delicati destinati ad essere trattati con le atmosfere modificate studiate per ogni tipologia di alimento

-stoccaggio in cella o armadio frigorifero degli stessi,diversificando sempre i prodotti destinati ad essere avviati alla cottura o da conservare

-tenere la temperatura  di conservazione costante da 0°C a +3°C

-cuocere i prodotti rispettando le giuste impostazioni delle temperature previste sia in camera di cottura che al cuore utilizzando l’apposita sonda con ago sottile ed applicando il tampone in neoprene sull’esterno del’involucro che consentirà il mantenimento del vuoto

-abbattere immediatamente la temperatura dei prodotti cotti utilizzando l’abbattitore di temperatura o immergendo i sacchetti in acqua e ghiaccio

-impostare la temperatura di abbattimento a +3°C al cuore o a -21°C sempre utilizzando l’ apposita sonda ad ago sottile

-conservare i prodotti etichettati con la data ed il lotto di produzione in cella o armadio frigorifero impostando la temperatura che deve essere costante ed oscillare da 0°C a +3°C

-procedere all’avviamento della  rimessa in temperatura nel più breve tempo possibile cercando di avvicinarsi al momento del servizio

  è indispensabile che i cibi cotti e conservati da 0°C a +3°C  prodotti per essere consumati freddi, vengano serviti in un tempo fissato di 30 minuti dal momento in cui avviene il prelevamento dalle celle o dai frigoriferi di stoccaggio

-mantenere nelle delicate fasi di rigenerazione  le temperature al cuore del prodotto di 1/2°C inferiori a quelle utilizzate per la cottura utilizzando gli strumenti  o le tecnologie  appropriate come rigeneratori,forni a microonde,forni a vapore,bagnomaria a temperatura stabilizzata,griglia,padella,salamandra

– eliminare i prodotti rimessi in temperatura e non serviti sempre rispettando i 30 minuti dal momento in cui viene attivato il processo di rigenerazione, tenendo presente che la temperatura di stazionamento deve essere mantenuta costantemente a  65°C.

Vantaggi generati dall’attivazione del ciclo di produzione del sottovuoto

I vantaggi del sottovuoto non si limitano alla sola fase di conservazione del prodotto, ma si allargano anche nella fase di preparazione del piatto finale. Questa tecnica diviene, di fatto, un prezioso alleato dello chef in cucina. Questo perché:

– Insieme all’abbattimento rapido della temperatura, fornisce una maggiore flessibilità di utilizzo delle materie prime: lo stesso ingrediente può essere usato per preparazioni diversificate

– maggiore controllo delle temperature di cottura, da cui deriva una maggiore flessibilità anche in questo ambito

– maggiore uniformità di cottura del prodotto alimentare e omogeneità di aromatizzazione. ne deriva un’amplificazione dei gusti e una migliore intensità dei colori

– la possibilità di usare temperature estremamente più basse rispetto alla cucina tradizionale, e perciò determinanti nel preservare inalterate anche le componenti organolettiche più sensibili, i colori, e il gusto.

-come già accennato la conservabilità dei prodotti (shelf life) si estende notevolmente e,e si intende operare in maniera totale, ci si dovrà far assistere da un laboratorio specializzato che stabilirà il giusto valore delle cariche batteriche  poter così stabilire la corretta durata delle produzioni

-le rese di prodotti lavorati sono nettamente superiori a quelle ottenute utilizzando i metodi di cottura classici

-I costi di produzione derivanti da molteplici fattori si abbassano notevolmente

-Gli addetti ai lavori beneficiano di una tranquillità operativa e mentale tale da poter dedicare parte del tempo, prima occupato per far fronte a  fasi di lavorazione intense, ora mirato a creare nuovi schemi di lavoro produttivi ed efficienti curando così maggiormente le ricette da proporre e la formazione.

Spunti teorici e tecniche innovative gentilmente concessi dal mio amico Chef Internazionale Luca Barbieri.

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A tavola siamo quotidianamente portati a scegliere e, ancora prima, quando facciamo la spesa e selezioniamo i prodotti da portare nella nostra dispensa.

Studiare, scoprire, degustare, applicare e natura: sono questi i concetti che riguardano la tecnologia alimentare, ovvero la tecnologia di cui l’uomo si è dotato per conoscere a fondo le proprietà dei cibi, la loro possibile trasformazione, le loro reazioni, la loro salubrità, ecc. La tecnologia alimentare applica la scienza alimentare a selezione, conservazione, lavorazione, confezionamento, distribuzione e utilizzo di alimenti sicuri, nutrienti e salutari. Si tratta di un approccio fondamentale per chiunque voglia manipolare il cibo, in modo professionale o familiare, consapevole di fare le giuste scelte.

Non sempre da consumatori pensiamo all’enorme numero di alimenti che esiste e alla ricerca e allo sviluppo tecnologico che hanno creato gli strumenti per ottenere cibi nutrienti, sicuri e idonei. In certe scuole di ristorazione la tecnologia alimentare fa parte del piano di studi e insegna, a fianco delle tecniche di cucina, la nutrizione e la lavorazione degli alimenti. Purtroppo questa viene poco approfondita e, terminato il percorso di studi, alcuni alunni non ne comprendono la possibile applicazione. Alcuni pensano ancora che con acqua e “farina forte” si produca pane, che con burro uova, zucchero e farina si apra una pasticceria. Ma non basta più, non è più sufficiente perché i cibi sono cambiati e occorre fare la conoscenza di quelli davvero disponibili sul mercato.

I cibi vengono conservati (carne in scatola), liofilizzati (frutta o verdura da reidratare), polverizzati (latte in polvere), vengono anche modificati (caffè decaffeinato con sistema Co2) o estratti (essenze, fibre, colori) tutto sempre a partire dalla natura ma con l’applicazione della tecnologia. Gli scienziati e i tecnologi alimentari studiano la composizione fisica, microbiologica e chimica degli alimenti e possono individuare la modalità preferibile di lavorazione, conservazione, confezionamento e immagazzinamento di prodotti alimentari.

Come spesso accade, purtroppo, la tecnologia, il suo uso puro, funzionale, di carattere anche etico e sociale, viene strumentalizzato a scopi che ledono il suo carattere primario di “strumento che aiuta l’uomo”. Non facciamo adesso far paragoni di portata, ma vogliamo mostrare un certo meccanismo che pare annebbiare ciclicamente il buon senso dell’uomo. L’energia nucleare è nata come energia alternativa ai combustibili fossili, pulita quanto a emissioni di CO2, ma ha saputo essere strumento di morte e di distruzione; da scoperta a disposizione dell’uomo per migliorare la sua salute è divenuta uno strumento d’interesse militare per il raggiungimento di precisi scopi strategici, dimentica del suo valore civile, etico e sociale.

La tecnologia alimentare, unita ad altre discipline, ha portato a numerose scoperte e all’innovazione in campo alimentare; tutti questi strumenti a disposizione dell’uomo, della sua salute e del suo benessere alimentare vengono oggi utilizzati anche oltre il loro giusto equilibrio, per via di un meccanismo a quanto pare irresistibile. Significa che se si è appreso da quali fattori è determinato, per esempio, il tempo di conservazione di un alimento (aspetto che ci consente di assumerlo solo quando è salubre), ci si è spinti a capire come portare avanti questo termine, non solo refrigerando il prodotto, ma anche manipolandolo oltre la propria natura così da renderlo idoneo al consumo molto a lungo. Si è andati oltre alla naturalezza dell’alimento e si tratta di un semplice esempio di come l’industria alimentare possa strumentalizzare la tecnologia alimentare, dimentica del suo valore civile, etico e sociale, per i propri scopi. Per esigenze di conservazione, quindi, per motivi di libero mercato, per questione di spazio a disposizione, per la necessità di rendere i cibi largamente disponibili, per farli durare più a lungo e per la globalizzazione del mercato, il cibo è riuscito a diventare anche “cibo spazzatura”. Si tratta di quel cibo che è in grado di saziarci, placando la nostra fame, ma che non apporta valori nutrizionali essenziali, perché ne è stato privato per ragioni che non mettono la salute del consumatore al primo posto nella scala dei valori aziendali.

In questo modo si è creata anche una certa sfiducia nei confronti di tutto ciò che viene riportato nell’elenco ingredienti e che non è immediatamente riconducibile alla natura del prodotto acquistato. In etichetta sono molte le sostanze a essere indicate con codici di tre o quattro cifre, preceduti dalla lettera “E”, a volte sostituita dal nome per esteso; si può trattare di coloranti, conservanti, antiossidanti, antiagglomeranti e regolatori di acidità, addensanti, stabilizzanti ed emulsionanti, esaltatori di sapidità e altri.

Gli unici alimenti che per legge non possono contenere additivi sono il latte (intero, parzialmente scremato, a lunga conservazione), yogurt (naturale, intero o scremato) e altri prodotti lattiero fermentati con fermenti vivi ma non aromatizzati. Oltre a questi vi sono oli e grassi animali e vegetali non emulsionati, caffè, tè in foglie non aromatizzato, pasta secca, miele e zucchero (grezzo e raffinato). Tutti gli altri possono contenere additivi, di vario genere, ma ciò non significa necessariamente che si tratti di cibo spazzatura. Gli zuccheri (edulcoranti), per esempio, sono un argomento che merita attenzione perché ve ne sono di naturali e artificiali e comunque in entrambi i casi, si ritrovano in etichetta con nomi come E 952 Ciclammato di sodio presente nelle bibite, e E 420 sorbitolo proveniente dalla sorba, che può spaventare  ma ingiustificato. I grassi, non di meno, sono banditi dal comune pensare come elementi inutili, che fanno ingrassare e ingolfano l’organismo; la verità è che alcune tipologie di grasso svolgono una funzione benefica per l’organismo, basta saperle identificare come vedremo tra poco. Insomma, in ogni caso è alla tecnologia alimentare che dobbiamo ricorrere per capire come può un prodotto durare così a lungo, raggiungere quel sapore così spiccato o, ancora, mantenere inalterato il proprio colore dopo la cottura. Ma lo dobbiamo fare per avere un approccio critico all’alimentazione, senza privarci di prodotti dall’ingredientistica salutare per colpa del clima di sfiducia che si respira tra gli scaffali del supermercato. Certamente dobbiamo continuare a chiederci perché mai dovremmo ingerire coloranti, conservanti ed emulsionanti, preferendoli agli alimenti che non li contengono ma magari sono un po’ più opachi all’occhio o che non durano mesi. 

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